La sfida di Ore 15:17 – Attacco al treno è la stessa di Sully, cioè prendere un fatto di cronaca con una componente adrenalinica molto forte ma una durata molto breve – un paio di minuti – e costruirgli attorno un film di un’ora e mezza. In Sully il fatto era l’ammaraggio di un aereo di linea e il film si sviluppava come un dramma processuale, qui invece si tratta di tre ragazzi americani che il 21 agosto 2015 hanno sventato un attacco terroristico sul treno Amsterdam – Parigi e il resto è una specie di biopic che termina con l’unica vera scena d’azione.
Qui c’è subito un doppio problema, cioè che i protagonisti della storia (e anche del film, recitano se stessi), Spencer Stone, Anthony Sadler e Alek Skarlatos, hanno alle spalle poco più di vent’anni e una vita tutto sommato trascurabile, ragazzi non particolarmente svegli né particolarmente talentuosi della middle class repubblicana che dopo le scuole superiori si arruolano nell’esercito. Per di più quando Attacco al treno viene girato sono passati meno di due anni dai fatti e il libro a cui è ispirato è praticamente un instant book, quindi non c’è nemmeno lo spazio per muovere il loro mondo avanti e indietro nei decenni.
Eastwood non fa niente per nascondere il problema: la prima parte, quella sull’infanzia e poi l’addestramento militare, è una somma di aneddoti confezionati in modo scolastico, mentre la seconda, quella della vacanza in Europa che si conclude con l’atto di eroismo, è girata quasi tutta con camera a mano e una fotografia digitale pochissimo lavorata, accumula stereotipi sulla cultura europea (in particolare italiana, ci sono prima Roma e poi Venezia), ed è praticamente priva di fatti salienti – i ragazzi non fanno altro che commentare alla buona i monumenti (“Quanta roba vecchia!”), scattarsi foto, postarle sui social, andare in discoteca, provarci con le ragazze.
A questo punto o decidiamo che Eastwood è completamente impazzito (o irrimediabilmente invecchiato), o – e forse è meglio – cerchiamo di capire le sue ragioni, cioè l’impianto teorico che sta dietro a certe scelte. Tanto più che Attacco al treno segue uno dei suoi film più seducenti, cioè più straordinariamente sbozzati dal marmo del cinema e più potentemente retorici (nel senso migliore del termine), come Sully. E allora riconosciamo che per il regista californiano “deporre le armi” e ridurre il suo mestiere ai minimi termini (quando vuole, perché comunque la sequenza dell’attacco è molto bella) di fronte a un fatto come questo, significa restituire il suo cinema alla realtà che lo precede, cioè la sua ispirazione e i suoi personaggi alla loro concretezza storica.
È una questione fondamentale, perché il cinema recente di Eastwood è un cinema assolutamente morale e se pensiamo a Gran Torino come a un manifesto e quel che segue come a una conseguenza, la cosa è subito chiara. Ecco perché Attacco al treno “si tira indietro” di fronte a Spencer, Anthony e Alek, ecco perché si pone costantemente il problema di abbassare il tiro e mettersi all’altezza della loro esperienza, senza tentare mai di metterci un fiocco sopra, senza mai fargli il torto di abbellirli (ed ecco perché non potevano che essere loro a interpretarsi): perché in un certo senso ammette di essere, rispetto a loro, subalterno. O comunque di trovare in loro compimento.
Spencer, Anthony e Alek sono, per Eastwood, la sostanza distillata da un pensiero, da una vita, da una filosofia politica e umana, che – ovviamente – è conservatrice e cristiana fino al midollo (“Voi avete le vostre pillole, noi abbiamo il Signore”, dice la madre di Spencer alle maestre che vorrebbero far prendere al figlio il Ritalin); il che può naturalmente essere indigesto. Ma se si accetta di guardare questi ragazzi con i suoi occhi, la sua etica e il suo affetto commosso per la gioventù, la commozione è straordinaria.
Si può quindi dire: Ore 15:17 – Attacco al treno è un punto di arrivo per un maestro che non deve più dimostrare niente.
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