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Circuito Chiuso: Paranormal Activity all’italiana

Il regista Giorgio Amato ci racconta il suo film, a metà strada tra thriller d'indagine e horror domestico. Con la benedizione dei Manetti Bros

Due amici che indagano sulla sparizione di una ragazza. Un uomo solitario in cerca di una baby sitter (ma il bambino esiste davvero?). Delle telecamere nascoste dai due in casa dell’uomo, per scoprire se è lui ad aver rapito la loro amica. Questi i punti di partenza di Circuito Chiuso, lungometraggio indipendente che si porta dietro un notevole lasciapassare: la produzione dei Manetti Bros, tra i pochi baluardi del cinema di genere rimasti in Italia (ultima regia firmata L’arrivo di Wang di cui ci hanno parlato qui). Il film rispolvera i meccanismi del thriller claustrofobico, aggiornati però alla recente moda del mockumentary e con un occhio di riguardo per gli horror domestici alla Paranormal Activity. E proprio il film fenomeno di Oren Peli sembra l’ispirazione più evidente per questa discesa nei meandri di una mente malata e criminale, che si tinge di tinte fosche soprattutto nella seconda parte, quando divengono più evidenti gli accenti morbosi e splatter.
(Foto di Barbara Oizmund – sotto alcuni scatti stile Polaroid e frame del film)

Abbiamo rivolto alcune domande al regista, per ricostruire i modi e le ragioni della sua ispirazione.

Best Movie: Quando hai cominciato a pensare a come realizzare il film avevi in mente una sorta di Paranormal Activity all’italiana?

Giorgio Amato: Ho scritto il soggetto di Circuito Chiuso nella primavera del 1998, come spunto per realizzare un cortometraggio di fine corso della scuola di regia e sceneggiatura. Ritenevo che, con il budget messo a disposizione dalla scuola, si potesse girare non solo un corto, ma un lungometraggio. Tuttavia il docente di regia scelse un’altra idea per girare un corto di cinque minuti in pellicola, e il soggetto di Circuito Chiuso finì nel cassetto delle idee bocciate, insieme a tante altre. Ripeto, parliamo del 1998, girare un film in digitale era considerata una grave forma di eresia e non solo Paranormal Activity era lontano un altro decennio, ma non era uscito nelle sale nemmeno The Blair Witch Project. Ricordo bene, però, che per difendere l’idea, citai film come Forgotten Silver, di Peter Jackson e Zelig, di Woody Allen. Ma fu comunque inutile.

BM: Cosa pensi di questa fioritura del genere mockumentary, in particolare in ambito horror?
GA: Un film è un’opera di verosimiglianza, che presuppone sempre e comunque una sospensione dalla realtà da parte dello spettatore. Il genere mockumentary sposta questa soglia più avanti, creando un’aspettativa maggiore da parte di chi guarda il film. Per ottenere questo bisogna lavorare in maniera diversa a partire dalla sceneggiatura fino al lavoro con gli attori. Persino il montaggio richiede tempi e idee differenti rispetto un film normale. L’horror e la fantascienza, poi, essendo generi dove si richiede una maggiore sospensione della realtà, sfruttano spesso il genere mockumentary proprio per colmare questo gap di verosimiglianza.

BM: Qual è stato il percorso artistico che ti ha portato a girare questo film? E come è nata la collaborazione con i Manetti Bros?
GA:Un po’ come tutti ho fatto tanta gavetta, tra cortometraggi, fiction e teatro. Ed è stato proprio grazie a Gemelli Diversi, una commedia teatrale andata in scena l’anno scorso a Roma, che ho conosciuto Lea Martino. Dopo avermi fatto i complimenti per il testo, Lea mi ha chiesto se avessi anche dei progetti per il cinema, perché il papà Luciano stava cercando delle nuove idee, possibilmente a basso costo. Così sono andato a riprendere dal cassetto l’idea più economica che avessi mai scritto. Quando presentai il soggetto di Circuito Chiuso a Luciano Martino, è chiaro che il recente successo di pubblico di Paranormal Activity ha giocato a mio favore. A Luciano l’idea è piaciuta subito, per questo ha girato il soggetto ad Antonio e Marco Manetti, con i quali stava terminando un altro film. E da quel momento in poi sono caduto nelle mani dei Manetti Bros. Antonio e Marco Manetti avranno per sempre la mia più profonda gratitudine. Mi sono stati accanto dalla riscrittura del soggetto all’ultima fase del montaggio. Si sono dimostrati i produttori esecutivi migliori che un regista alle prese con un’opera prima possa mai avere accanto. La collaborazione è stata perfetta e ho sempre cercato di fare tesoro di tutti i suggerimenti che mi hanno dato. Sul set non c’è mai stato un momento di tensione, e nonostante il film sia stato realizzato in sole tre settimane, siamo sempre riusciti a rispettare il piano di lavorazione e far rientrare i costi.

BM: Come sono stati realizzati gli effetti speciali del film, in particolare i modelli per i dettagli splatter?
GA: Nel film ci sono pochissimi effetti speciali, perché ho preferito puntare più sulla tensione narrativa piuttosto che sui dettagli splatter tipici del genere. Tuttavia per quei pochi elementi presenti, ci siamo rivolti a Sergio Stivaletti che ha realizzato i modelli con la riconosciuta professionalità che lo contraddistingue da anni.

BM: Perché la scelta di rendere esplicito il destino dei personaggi fin da subito attraverso le sovraimpressioni?
GA: Ho voluto sposare fino in fondo la lezione di Hitchcock sulla suspence (secondo Hitchcock, la suspance si crea quando lo spettatore è a conoscenza di informazioni che invece i personaggi non hanno, NdR), focalizzando al massimo l’attenzione dello spettatore sul destino già designato delle vittime. È stata una scelta narrativa molto precisa.

BM: Quando lo vedremo al cinema?
GA: Il film è già stato inserito in catalogo da Lucky Red che ha parlato di una possibile distribuzione nel secondo semestre del 2011. Ma non c’è ancora nulla di certo…

La protagonista Francesca Cuttica

Alcuni frame:


Il protagonista Stefano Fregni



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