Everest: Josh Brolin, «La mia nuova dipendenza è scalare le vette più alte»

Nel corso della nostra set visit l'attore ci ha raccontato come ha vinto la sua paura per l'altitudine e come si è preparato per le sfide sul set ad alta quota

Il thriller di Baltasar Kormákur Everest (qui il trailer più recente) aprirà il Festival di Venezia raccontando una storia vera e ispirata al bestseller Aria sottile di Jon Krakauer, in cui l’autore narra la tragica spedizione sulla catena dell’Himalaya a cui partecipò nel 1996 e durante la quale persero la vita molti dei partecipanti. Su Best Movie di settembre potete leggere la nostra intervista “extra large” a uno dei protagonisti, Jake Gyllenhaal, inoltre durante il Festival continueremo a tenervi aggiornati con approfondimenti e interviste al cast. Nella nostra set visit, oltre a Gyllenhaal, abbiamo incontrato anche Josh Brolin. Nel corso di una lunga chiacchierata l’attore, che nel film interpreta il dottor Beck Weathers, ci ha raccontato come si è preparato alle riprese allenandosi sulle montagne della California insieme a Jake (qui una featurette che mostra il dietro le quinte) e di come sia rimasto affascinato da una storia che descrive le reazioni della mente umana alle situazioni più terribili e pericolose.

Best Movie: Come ti sei preparato per questo personaggio? Qualcuno ha detto che avete addirittura vissuto situazioni estreme sulle montagne…
Josh Brolin: «Innanzitutto bisognerebbe capire cosa vi hanno raccontato…»

BM: È stato il regista che ha fatto cenno a questa cosa…
JB: «Ho letto su un quotidiano che io e Gyllenhaal siamo caduti in un dirupo e abbiamo dovuto lottare contro coyote e serpenti velenosi (ride). Conoscete i Boy Scout? Beh, ci hanno salvati loro»!

BM: Quindi qual è la vera versione?
JB: «Non c’è nessuna storia vera…In realtà io e Jake non ci siamo mai visti prima di raggiungere il set in Italia in Val Senales. C’è un vecchio attore a cui sono molto legato, è uno dei miei migliori amici, Anthony Harvey. È un grande e una volta mi ha chiamato al telefono alle 2 del mattino per discutere degli script e del lavoro che stavo facendo urlandomi: “Ho capito, finalmente ho capito!“,  e io: “Che cosa hai capito?“, lui risponde: “non è tanto per la recitazione, non c’entra con gli altri attori: quando arrivi sull’Everest per la prima volta e guardi in alto rimani affascinato da ciò che vedi sulla montagna. Ma la verità è che alla montagna non importa proprio un bel niente che tu sia li” e io: “Wow, sai che c’è? devo tornarmene a letto!“.  Ma quando mi ha detto quella cosa sulla montagna a cui non importa nulla della tua presenza ha centrato il messaggio. Questo è un film sulle relazioni tra i personaggi ma non solo. Ad esempio il mio personaggio deve lottare contro la depressione. C’è una certa dose di paure con cui devi fare i conti, che tu sia uomo o donna, di antagonismo, di rapporto con il tuo ego, di solitudine, ma anche di fratellanza che lega i protagonisti. Quando si intraprende una spedizione di questo tipo in pratica i tuoi compagni di scalata diventano proprio come dei compagni d’armi quando si va al fronte.
Quindi, per rispondere alla domanda originale, in effetti ho scalato un paio di montagne in California per prepararmi al film con lui (Gyllenhaal, ndr) e abbiamo anche trascorso la notte fuori. È stata un’esperienza particolarmente dura perché la temperatura era vicina allo zero, arrivando anche a -15 gradi. Faceva freddo, non riuscivo a sentirmi i piedi, le dita, e dovevo continuare a camminare. Inizi a renderti conto di quanto sia difficile, ma contemporaneamente apprezzi questo tipo di esperienza. Inoltre insieme alla mia compagna abbiamo fatto una via ferrata sulle Dolomiti e quando sei lassù, accanto a uno strapiombo di 750 metri, inizi a sentire il freddo e i muscoli si contraggono: tutto diventa faticoso e cominci ad avere paura di cadere. Così cominci a farti un sacco di domande del tipo: “Cosa succede se uno di quei moschettoni non è stato agganciato bene?“. Vieni sopraffatto da fobie enormi e debilitanti, paure che possono tormentarti il cervello per anni. E così ho incominciato ad avere una relazione intima con questo tipo di ansia. Mentre prima avevo paura dell’alta quota, di salire su qualsiasi tipo di vetta, ora questa fobia è totalmente scomparsa. Ma chiaramente un’impresa come quella dell’Everest mette in soggezione chiunque. Dopo le prime scalate, questo tipo di esperienze sono diventate una vera e propria dipendenza: è davvero assurdo perché in montagna raggiungi dei livelli di stanchezza estrema: dolori ai piedi, alle gambe, non vedi l’ora di scendere. Ma nel momento stesso in cui torni, non vedi l’ora di partire per una nuova vetta».

BM: Secondo te questa è una dipendenza da cosa esattamente?
JB: «Dal confrontarti con te stesso. Dal capire di cosa sei capace veramente e cosa è veramente alla tua portata. E ora che ho 46 anni devo anche fare i conti con il fatto che non ne ho più 20 e che non sono più atletico come un tempo: non rimbalzo più come allora, le ossa si rompono più facilmente. Ad esempio quando eravamo in Val Senales abbiamo sciato e ho fatto una brutta caduta in cui mi sono infortunato la spalla. Nulla di grave, ma ora continua a farmi male ed è quello che succede quando hai la mia età. Quindi se proprio devo cadere meglio farlo da 2.500 piedi, meglio fare le cose alla grande! (ride)».

BM: Come descriveresti il tuo personaggio?
JB: «È un tizio che arriva dal Texas, che tenta di sconfiggere la sua depressione ed è proprio grazie a una comune vacanza con la famiglia, durante una scarpinata con gli amici, che capisce di aver trovato una sorta di antidoto alla malattia e da quel momento continua ad inseguire quel tipo di esperienza, iniziando dalle cime più accessibili per passare alle montagne più alte, fino ad arrivare all’avventura raccontata da Jon Krakauer. Ti senti come se dovessi sempre spostare il limite un po’ più in là. La cosa interessante è che guardando il film si pensa che il mio personaggio molto probabilmente sarà uno dei primi a morire: ha problemi a casa, è molto vulnerabile, ha un ego immenso, parla sempre in maniera frenetica, mostra molti punti deboli. Ma in realtà non è quello che accade. Anzi si rimane sorpresi perché i primi a morire sono proprio quelli che sembravano i più preparati. Ci si ritrova a riflettere sulle varie dinamiche, del tipo: “È sopravvissuto perché si è concentrato sul ricordo della famiglia? Oppure per qualche altro motivo, perché magari ha più capacità o magari è stato solo il caso“, nessuno può saperlo. E la cosa più interessante è che, nonostante il mio personaggio sia sopravvissuto senza dita e senza mani, continua a cercare la sfida. La moglie gli proibisce di continuare a scalare ma lui si mette alla prova pilotando jet. La sua mente continua a cercare il limite. Questo per me è uno degli aspetti più interessanti della sua mentalità. È per questo motivo che l’ho ritenuta una storia molto interessante, perché mi piacciono le storie che raccontano cosa sprona la mente umana quando è costretta a reagire alle situazioni più terribili per riuscire a superarle e a non arrendersi. Arrendersi è molto facile e personalmente ho vissuto molte di queste situazioni anche se non in maniera così estrema».

BM: Puoi dirci qualcosa della location in Val Senales? È stata dura? dicono ci sia stato brutto tempo?
JB: «La cosa divertente è stata che mentre io ero tutto impegnato a far finta di scalare con un tempo orribile avevo accanto bambini di 5 anni che sciavano divertendosi come matti (ride). Ogni mattina salivamo sull’elicottero per raggiungere la cresta in punti impervi e ti trovavi circondato da strapiombi di 1.500 metri da una parte e 750 metri dall’altra, chiedendoti continuamente se era tutto ok visto che sei un attore e non un vero scalatore, oltre a domandarti se l’assicurazione avrebbe coperto anche quel tipo di situazione. Poi magari il tempo si guasta, sei in vetta insieme ad altre 20/25 persone e ti chiedi se, nel caso arrivi una bufera improvvisa, l’elicottero riesca a riportare in tempo tutti indietro sani e salvi. Quindi è stato un bene che io mi sia allenato a scalare anche per la mia stessa sicurezza, oltre che per entrare meglio nel personaggio. La Val Senales è un posto straordinario. Siamo stati a trovare Reinhold Messner ed è stato davvero fantastico. Abbiamo incontrato altri personaggi che hanno partecipato alla spedizione come Guy Cotter e David Breashears e questo è stato importante per capire la loro personalità. È un posto eccezionale dove però preferirei ovviamente venie in vacanza, piuttosto che per lavoro, perchè è una cittadina bellissima per fare passaggiate e mangiare buon cibo. Invece è stato molto difficile quando per le riprese siamo rimasti bloccati 3 giorni con un tempo pessimo e siamo rimasti fermi per molto tempo pensando “E ora che facciamo qui?“».

BM: Hai anche avuto a che fare con degli sherpa?
JB: «Si, ho trascorso del tempo con loro. Ci sono stati momenti divertenti, ma anche molto seri ed emozionanti. Tutto quello che devi fare è rimanere seduto ad ascoltare le storie che raccontano. Ce ne sono tantissime, specialmente sull’Everest che parlano delle valanghe e degli accampamenti, che ti fanno capire come sono realmente queste avventure e come trascorre la vita di queste persone che vivono in villaggi ad altissima quota, dove spesso anche gli animali sono una minaccia. Abbiamo pagato 500 dollari per salire in quota e incontrare Scott Fisher. Se uno ci pensa è da pazzi mettere a repentaglio la propria vita per quei soldi: anche se sei uno sherpa rischi moltissimo. Vivere in quota non significa che tu sia immune a certi fattori: quando ti ritrovi a 7.500 metri le cellule di qualsiasi essere umano muoiono, a quell’altezza il tuo corpo muore. Io e Jake ci siamo spinti fino a 24-26 mila piedi di altezza in una camera ipobarica e quando eravamo a 22 mila piedi abbiamo iniziato a guardarci in faccia e a ridere in modo isterico senza sapere perchè, fino alle lacrime. Poi quando ho smesso di ridere sono diventato improvvisamente pallido, i miei occhi penzolavano mentre lui andava avanti a ridere e mi indicava, mentre io stavo pensando “Ecco, ora non è più molto divertente“. Ma è stata una sensazione straordinaria perchè ti rendi conto di come sia un’impresa davvero impossibile. Ad esempio non riesci nemmeno più a contare da 1 a 4 a causa della carenza di ossigeno, è come essere storditi da una droga. Devi mettere tutto questo insieme per capire le come ci si sente sull’Everest, è come seguire un sentiero dove ogni singolo passo fa la differenza tra la vita e la morte. Passi attraverso diversi corpi congelati chiedendoti chi erano quelle persone. È un’esperienza folle, cerchi di scherzarci sopra ma in realtà ti rendi conto di quanto tutto sia vero e decisamente immenso».

 

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