Festival di Roma 2010: Susanne Bier ci fa vedere cosa manca per essere In un Mondo Migliore

Il ritorno di Susan Bier è un'analisi della condizione umana, una storia di padri, figli e di mondi lontani

Lo scopo dichiarato di Susanne Bier, acclamata regista danese, autrice di Haevnen – In un Mondo Migliore, era quello di distruggere l’immagine idilliaca che il mondo ha della Danimarca. Quest’anno già Brotherhood di Nicolo Donato aveva dato un bel colpo all’immagine del paese con la sua storia di giovani neonazisti, ma, decisamente, il lavoro di Susanne Bier è di ben altro spessore e più ampio respiro.

Candidato dalla Danimarca agli Oscar 2011, Haevnen è la storia di Anton (Mikael Persbrandt), un medico idealista che lavora in Africa mentre suo figlio adolescente, Elias (Markus Rygaard), viene tormentato dai bulli della scuola. A proteggere Elias arriva Christian (William Jøhnk Nielsen), un bambino che cova una rabbia violenta in seguito alla morte della madre. Mentre Anton vede messa alla prova la sua fede in un mondo migliore in Africa, Elias e Christian fanno i conti con le proprie azioni pericolose ed irresponsabili quando decidono di vendicare anche Anton di un maltrattamento subito durante una passeggiata.     

 Tra gli attori, colpisce in particolar modo il piccolo William Jøhnk Nielsen, il cui Christian è un piccolo concentrato d’odio e di violenza crescente che spaventa. Un vero cattivo in miniatura, ma anche un’intepretazione di spessore, basta vedere il cambiamento di Christian nelle ultime, concitate, scene.

La solitudine dei bambini, le difficoltà di comunicazione, simboleggiate dalla telefonata via Internet che Anton e Elias tentano di fare, il tema della vendetta e della violenza, della rabbia che acceca le persone a tutte le latitudini: Susanne Bier non parla solo della Danimarca, è evidente. Se però è difficile sanare le ferite degli adulti (gli africani che si vendicano dei torti subiti, Anton che si separa dalla moglie), quello che è imperdonabile è la mancanza di attenzione verso le esigenze dei bambini, che devono essere educati a costruire un mondo migliore. Anton ci prova, mostrando ai ragazzi la strada della non violenza e, letteralmente, come si porge l’altra guancia, ma non riesce a capire la psicologia dei bambini, che, una volta soli, decidono per la strada della violenza. Anche la scuola non ci fa una bella figura, ormai ridotta a baby sitter istituzionale, e questo un po’ ci conforta, visto che evidentemente è un problema che non solo l’Italia, con La Scuola è Finita di Valerio Jalongo, ha voluto denunciare al Festival.

Haevnen ha tanti elementi che possono colpire e stimolare il pensiero dello spettatore, anche se indulge al melodramma in alcuni momenti (alcune scene in Africa, o le telefonate tra Anton e la moglie, potevano essere accorciate); un film non per tutti, ma decisamente un film che getta uno sguardo acuto sulla condizione umana, senza puntare il dito, ma lanciando un chiaro segnale d’allarme.

Nella foto, Susanne Bier (foto Guido Villa)

Susanne Bier


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