Festival di Roma 2012, Stallone: «Rocky ha finito la sua corsa, Rambo tornerà presto»

E poi Rambolina la Rambo donna, i duelli a colpi d'ascia e quella volta che spaventò a morte Woody Allen: incontro con il protagonista di Bullet to the Head, presentato oggi al Festival

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«Prima di cominciare voglio dire una cosa a cui tengo molto: è sempre più raro trovare immagini o luoghi iconici nel mondo. Qui voi avete una delle più grandi istituzioni di tutti i tempi, che è Cinecittà: ho visto troppi teatri di posa chiudere nella mia vita, e spero che il governo italiano intervenga per tenere viva e vitale Cinecittà».

Comincia così, con un intervento a gamba tesa del protagonista Sylvester Stallone, la conferenza stampa di Bullet to the Head di Walter Hill, presentato fuori concorso al Festival di Roma.

Fieramente anni Ottanta, inconfondibilmente girato da un maestro come Walter Hill e nobilitato da un attore ancora in stato di grazia nonostante l’età e gli acciacchi come Sly: questo è Bullet to the Head, tratto da una graphic novel francese adattata per il grande schermo da uno sceneggiatore italiano. Il film è un buddy movie molto particolare, in cui i due protagonisti (Stallone nel ruolo del killer Jimmy Bobo e Sung Kang in quelli del poliziotto Taylor Kwon) lavorano insieme per necessità e con la costante consapevolezza che, se potessero, si ammazzerebbero volentieri a vicenda. Ma c’è un politico corrotto da rovesciare e la morte dei due rispettivi partner da vendicare: la situazione ideale per mettere in scena un massacro punteggiato da ironia e battute al vetriolo; uno dei film più divertenti visti al festival, nonché uno dei più crudi e intensi.

Quando davanti hai mr. Stallone, però, è difficile farlo parlare solo del film che sta presentando: il suo vissuto è troppo ricco, e il suo ego troppo straripante, per non pensare di gustarsi aneddoti, riflessioni e battutacce. È quindi curioso l’approccio molto serio di Sly all’incontro con la stampa: la sua prima dichiarazione riguarda l’incontro con il pubblico tenutosi ieri sera nella zona periferica di Tor Bella Monaca, che per l’attore è stato «come tornare giovane, perché è una periferia come quella in cui sono cresciuto, un luogo difficile e pericoloso. Sono contento di esserci andato, perché è importante dire alla gente che non deve avere paura di fallire».

Poi, però, si comincia a parlare del film, e qui Sly si rilassa ed è sempre pronto a scherzare su tutto. Sul suo passato: «Ne sento il peso, ma è un bel peso: sono riuscito a fare due film come Rambo e Rocky influenzando un’intera generazione di persone, e con Bullet to the Head ho mixato i due per creare Jimmy Bobo. Era il mio modo di presentare un nuovo personaggio a questa generazione». Sul suo corpo: «Sembro così giovane perché mi alleno solo con attrezzatura italiana (di cui non faremo il nome per evitare di fare pubblicità occulta…, ndr)! È la migliore del mondo». Su suo futuro cinematografico: «Rocky è andato, non farò più film su di lui. Mentre per Rambo è un altro discorso: lui è un guerriero che vuole sempre lottare, è la ragione per cui continuo a recitare perché io sono Rambo. I guerrieri hanno un sogno: morire una morte gloriosa. Per questo ho un’idea per un prossimo film, che non vi posso dire ma che potrebbe funzionare. E giuro che non è “Rambo contro l’artrite”! In alternativa, potrei mandare in pensione Rambo e farlo tornare come donna. Ho già il titolo: Rambolina».

Insomma, si ride molto quando parla Stallone, che però è capace anche di affascinare con storie di vita vissuta che sono sue e solo sue. Come quella volta che ha conosciuto Woody Allen, che lo fece esordire al cinema con una minuscola parte in Il dittatore dello Stato libero di Bananas: «Eravamo al casting, io e un amico, e dovevamo fare personaggi inquietanti e minacciosi. Woody non era per niente spaventato da noi, tanto che molto timidamente disse all’assistente di regia: “Mandali via, non mi fanno paura”. Al che il mio amico mi porta in una farmacia, compra della vaselina, se la spalma in faccia, prende del fango con il quale crea una maschera, torna da Allen con la faccia annerita e gli dice: “E ora ti faccio paura?”. Woody s’è spaventato così tanto che ha mormorato solo: “OK, siete assunti”». Anche se, forse, la risposta più interessante arriva alla domanda: «Qual è l’incontro che ti ha cambiato la vita?». Stallone risponde così: «Avevo appena fatto Rocky, che era costato 800.000$ e ne ha incassati milioni, quindi ci tenevo a essere pagato. Sono andato dal produttore e gli ho chiesto come mai non avessi ancora visto i miei soldi, e lui mi ha risposto: “Torna a fare il tuo nuovo film e non ti preoccupare. A noi non frega niente di te, solo del film”. Lì ho capito che Hollywood non è una fabbrica dei sogni ma un luogo di lavoro, che non è una storia d’amore tra registi, attori e pubblico ma un business, caotico e distruttivo, nel quale ti puoi fidare solo di te stesso. Ecco perché ho sempre fatto film che parlano del superare le difficoltà».

Di fronte a una personalità così straripante, persino un maestro come Walter Hill, uno che in carriera ha fatto di tutto e l’ha sempre fatto bene, uno che di se stesso afferma «qualsiasi film io abbia fatto è un western», rimane schiacciato. Eppure anche lui ha raccontato cose interessanti, per esempio che per lui Bullet to the Head «è un omaggio agli action anni Settanta/Ottanta, con pochissimi effetti speciali e molta personalità, ma ha anche un lato moderno che è venuto fuori grazie a un attore come Sly, che, anche se molti lo dimenticano, è anche un regista eccezionale». Oppure che per lui l’ironia (nel film si ride molto) è più importante ancora dei combattimenti: «Il mio motto è: prima la personalità, poi il far saltare in aria i palazzi». E riguardo alla sua ossessione per il western, Hill ha affermato che «il western è ancora vivo! È un genere che crea mondi fittizi da sempre, il selvaggio West che si vede nei film non è come quello vero, è un’astrazione, e questo vale per tutti i miei film. Il compito più difficile è creare un mondo di finzione dove le implausibilità della narrativa diventino credibili, e dove l’elemento di finzione però non distacchi il pubblico al punto da impedir loro di prendere sul serio il film. Il pericolo deve essere reale perché ci si creda. Vi faccio un esempio: il duello tra Sly e Jason Momoa nel film a colpi d’ascia. Vediamo due uomini che potrebbero spararsi addosso e invece gettano le armi e imbracciano un’arma vichinga. È implausibile, ma ha senso nel contesto dei personaggi, e il combattimento è reale e molto fisico. Ecco cosa intendo quando parlo di bilanciamento dei due estremi. Ed ecco perché hanno scelto me e Stallone per questo film».

(Foto: © Getty Images)

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