Fino all’ultimo respiro

L’opera di esordio di Jean-Luc Godard è un film destabilizzante e capace di spezzare le regole che avrebbero potuto soffocare la settima arte

Siamo nell’agosto del 1959, a Parigi. Una scarna troupe cinematografica, sprovvista dei permessi necessari per girare in strada e senza aver transennato lo spazio scenico, sta nascondendo una piccola cinepresa (la Cameflex) nel paniere di una bicicletta, per riprendere due begli attori sconosciuti che camminano e parlano (parlano tanto), lungo gli Champs-Élysées. Non lo sa ancora nessuno, ma la Nouvelle Vague, dopo I 400 colpi e Hiroshima mon amour, sta per consegnare al mondo un nuovo capolavoro che scuoterà nel profondo il linguaggio cinematografico e influenzerà tutto quello che verrà poi.

Il film è À bout de souffle (Fino all’ultimo respiro in Italia), gli attori sconosciuti sono Jean Seberg e Jean-Paul Belmondo e dietro la macchina da presa c’è un esordiente alla regia di un lungometraggio: Jean-Luc Godard. La storia della pellicola, blandamente ispirata da un fatto di cronaca e tutta contenuta su un tovagliolo da cocktail, è opera di François Truffaut e Claude Chabrol. Secondo alcuni, quello script èuna specie di scherzo ai danni di Godard, un gioco per mettere alla prova le idee del comune amico e collega e vedere se la sua poetica dell’irrilevante e la sua idea di cinema di movimento, possano davvero tenere in piedi una narrazione significativa. Molto più probabilmente, Truffaut e Chabrol hanno capito perfettamente cosa voleva fare Godard e gli danno esattamente quello di cui ha bisogno: uno spunto narrativo sufficiente a convincere i produttori (che comunque stanzieranno ben pochi soldi) e a dare il via a un film costruito direttamente in corso d’opera. E così, Godard si getta in quella storia minimalec on del bagaglio essenziale, per non appesantirsi e muoversi più liberamente in una vicenda che ha bisogno esattamente di freschezza e libertà per non risultare eccessivamente già vista. Rifiuta in larga parte gli strumenti canonici del set, lasciando che treppiedi e binari prendano la polvere mentre la camera dap resa è affidata alle mani e alle spalle di Claude Beausoleil e spinge Raoul Coutard, il suo direttore della fotografia, a lavorare principalmente con luci naturali in ambienti reali. Agli attori lascia mano libera, seguendoli nelle loro improvvisazioni e modificando lo sviluppo narrativo in base alla spontanea piega degli eventi. E quando si arriva al montaggio, ci si ricorda la lezione di Sergej Michajlovič Ėjzenštejn e si lavora di jump-cut, contrapponendo inquadrature e sequenze, per creare una narrazione in primo luogo emotiva. Solamente l’inizio della storia e la sua conclusione sono noti prima dell’avvio delle riprese, mentre tutto quello che c’è in mezzo verrà scoperto (anche da Godard) giorno per giorno. Ne esce fuori un film perfetto che riesce a rendere armoniche le sue contraddizioni. Da una parte c’è l’amore per il cinema di genere e di serie B americano, classico a suo modo, ma dall’altra parte c’è l’insofferenza per i luoghi comuni, per gli stereotipi narrativi, per le convenzioni e, soprattutto per quel linguaggio e quella grammatica ormai standardizzata che opprime la settima arte tutta. Così Godard realizza un lavoro di scardinamento, portando sì a schermo una reiterazione di quei topoi filmici arcinoti, ma svuotandoli di rilevanza, per mettere in primo piano tutto quello che, invece, è irrilevante per lo svolgimento della vicenda. À bout de souffle liquida tutti i fatti importanti della storia (tra cui l’omicidio che dà il via alla vicenda e il suicidio che la chiude) per lasciare largo spazio a delle chiacchiere sul nulla dei due splendidi protagonisti, per soffermarsi sugli sguardi, le parole non dette e i momenti più minuscoli. Ne esce fuori un film che non si ferma mai ma che non va da nessuna parte, come fosse un treno lanciato in una folle corsa su un tracciato perfettamente circolare. Un’opera che è uno sberleffo e un attentato al linguaggio cinematografico canonico e, al tempo stesso, la massima celebrazione delle potenzialità e della libertà del cinema. Quando esce nelle sale, è subito chiaro a tutti che è arrivato qualcosa di nuovo e che Godard è stato capace di spostare la palla ancora più avanti di quanto non avesse già fatto poco prima il suo amico Truffaut. L’influenza di À bout de souffle sul cinema sarà fortissima e per qualche anno finirà per generare tutta una serie di vuoti epigoni che non riusciranno a coglierne la leggiadra gravità e che finiranno per dare adito alla nascita di tutta una serie di stereotipi negativi (generalmente falsi) su un certo tipo di cinema francese. Ma non è importante. Quello che conta davvero, invece, è che oggi, come nel 1960, À bout de souffle sia un film vivo e difficilmente classificabile, un campione del cinema di movimento e, ancora oggi, una locomotiva destabilizzante lanciata contro il più bolso e imborghesito linguaggio cinematografico proprio delle grandi produzioni.

Tre motivi per definirlo un classico:

– La regia ribelle eppure elegantissima di Godard

– Il racconto meraviglioso deL suo nulla

– Jean-Pau Belmondo e Jean Seberg

credit foto: © Les Films Impéria, Les Productions Georges de Beauregard, Société Nouvelle de Cinématographie (SNC)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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