Il genio di Hayao Miyazaki al Lucca Comics 2017: la recensione di Never Ending Man

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Never Ending Man

Nel corso della sua carriera, Hayao Miyazaki è andato in pensione almeno due o tre volte. L’ultima, la più nota a livello mediatico, doveva essere quella decisiva: il film Si alza il vento del 2013 venne pubblicizzato come l’ultimo grande capolavoro del Maestro giapponese, e in effetti ha tutte le caratteristiche di un poetico canto del cigno nel suo raccontare la drammatica storia di un progettista di aeroplani che altro non è che Miyazaki stesso. E invece non era vero: anche stavolta, il richiamo di carta e matita è stato troppo forte e il regista ha di recente annunciato di essere al lavoro su un nuovo progetto, ispirato al romanzo Kimi-tachi wa Dō Ikiru ka (Come si vive?) di Genzaburō Yoshino.

Cosa sia successo in questi ultimi anni e cosa abbia spinto Miyazaki a ritornare ad animare viene raccontato in Never Ending Man, un documentario realizzato dall’emittente televisiva giapponese NHK (ma in Italia arriverà al cinema grazie a Nexo e Dynit, qui il suo trailer), che va ad esplorare gli anni successivi all’annuncio del ritiro fino all’avvio della produzione del nuovo film, passando per la creazione di un cortometraggio intitolato Boro il bruco.
Sono due i principali piani di riflessione che Never Ending Man porta avanti parallelamente. Il primo è un’analisi dell’industria dell’animazione e del conflitto generazionale che caratterizza la nostra epoca. Gran parte del film mostra infatti Miyazaki al lavoro su Boro il bruco, un cortometraggio realizzato per il Museo Ghibli, con il quale per la prima volta il regista si è cimentato con la computer grafica. In un mondo in cui l’animazione a mano sta rapidamente scomparendo, che persino Hayao Miyazaki decida di lasciarsi tentare dalla CGI può essere qualcosa di spiazzante. Eppure il documentario è chiaro nel mostrarci sia le motivazioni che le conseguenze di questa scelta. L’artista giapponese si sente attratto dalla computer grafica perché territorio inesplorato, viene colto dall’entusiasmo di dover imparare di nuovo tutto da capo e di avere possibilità infinite grazie alle nuove tecnologie. Presto però la computer grafica diventa un fastidio: è troppo difficile e soprattutto ancora troppo limitata per rappresentare ciò che Miyazaki ha davvero in mente, neppure con l’aiuto dei giovani animatori che inizialmente sembravano averlo rivitalizzato. Bisogna fare un nuovo film, ma bisogna essere preparati a disegnarlo a mano. L’unica arte che Miyazaki conosce è un’arte forse vecchia, ma è in fondo l’unica che può creare “persone, non personaggi”.

C’è poi ovviamente un’analisi della figura stessa del Maestro, e quindi il tentativo di scavare a fondo per coglierne in qualche modo il genio, la concezione dell’arte, il suo rapportarsi alla vita ma soprattutto alla morte. È la morte ad aleggiare sopra ogni azione dell’anziano Miyazaki, che ripete incessantemente, quasi a voler convincere se stesso, di essere ormai prossimo alla fine e di non poter rischiare con un nuovo progetto che potrebbe anche non vedere mai la luce. Invece che ricorrere alle classiche interviste, il regista Kaku Arakawa sceglie di seguire letteralmente Miyazaki durante le sue giornate e di immortalarlo in vari momenti della sua vita quotidiana. Lo vediamo in casa mentre prepara il tè, in macchina, mentre ammira il monte Fuji dalla terrazza e ovviamente mentre disegna, con un effetto in presa diretta talvolta addirittura grezzo, quasi amatoriale (forse dovuto all’originaria collocazione televisiva). In tutte queste situazioni, Arakawa cattura i suoi pensieri ad alta voce senza lo scopo preciso di trovare delle risposte. Le parole di Miyazaki sull’arte, sulla società, sulla vecchiaia, sulla morte sono dei rapidi flash sulla sua persona, forse un tentativo di comprendere l’artista rimanendo rispettosamente a distanza. Ne emerge un quadro generale sfuggente: c’è qualcosa che non riusciamo ad afferrare completamente di questo grande autore, e forse è meglio così perché è proprio lì che risiede la grandezza.

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