Get on Up, Chadwick Boseman è James Brown nel biopic di Tate Taylor. La recensione

Il futuro Black Panther interpreta con grande intensità il Padrino del soul nel film diretto dal regista di The Help

Quando la Marvel lo ha annunciato al mondo come futuro Black Panther, la domanda è stata pressoché unanime: chi è Chadwick Boseman? Il ruolo che lo ha lanciato è quello di Jackie Robinson in 42, biopic sulla stella del baseball in cui recitava a fianco di Harrison Ford. Ma guardando Get on Up, film sulla vita di James Brown diretto da Tate Taylor, è lampante il motivo per cui Kevin Feige ha deciso di puntare su di lui: nei panni del Padrino del soul, Boseman è un’autentica forza della natura. E le difficoltà non erano poche: Brown è un’icona, che ha vissuto mille vite in una, alto 1,70 cm scarsi a dispetto del metro e ottanta abbondante del suo interprete. Però, complice un lavoro di make-up notevole – 50 parrucche in stile Pompadour e numerose protesi a denti e mascelle -, la differenza di altezza si è trasformata in un dettaglio trascurabile.

Boseman regala una performance vertiginosa in cui si abbandona completamente, sia durante le esibizioni sul palco (non tutte sono in playback), sia nei momenti più emozionali. Un lavoro trascinante che non si limita alla semplice imitazione e impressiona soprattutto a livello di mimica vocale, gemma assoluta di un biopic non del tutto soddisfacente. La sceneggiatura di Jez e John-Henry Butterworth si sviluppa in frammenti collegati più a livello musicale che narrativo: si parte dal 1988, quando Brown viene arrestato al termine di un folle inseguimento in auto con la polizia (ma l’incidente che l’ha provocato è ancora più bizzarro), e si finisce negli anni Trenta, quelli della sua difficile infanzia in Georgia. Quindi si prosegue saltellando qua e là nel tempo, tra un flashback e l’altro, sempre a ritmo delle hit più famose. Un caos temporale gestito con equilibrio, che però si spezza ogni volta che il protagonista si rivolge direttamente allo spettatore: difficile capire la scelta di puntare sulla rottura della quarta parete, tecnica nata per sottolineare la finzione del prodotto cinematografico (o teatrale), che in un biopic, legato a doppio filo con la realtà, risulta stridente. In più priva le scene più forti – di violenza domestica: Brown aveva il vizio di picchiare sua moglie – di tutta la drammaticità.

La regia di Taylor è dinamica e mostra diversi lati della personalità di Brown, geniale da una parte e molto complessa ed egocentrica dall’altra, ma lo sguardo resta troppo in superficie e non evidenzia abbastanza l’enorme impatto che l’artista ha avuto sulla cultura popolare. Il film installa presto il pilota automatico e non riesce a stare al passo con altri successi del genere, Ray su tutti. Ma nonostante tutto, alla fine negli occhi rimangono le prodezze di Boseman, e tanto basta.

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