Altro che dodici fatiche: Leonardo DiCaprio ne ha superate almeno il doppio durante le riprese di Revenant: Redivivo, nuovo lavoro del premio Oscar Alejandro González Iñárritu, girato in condizioni estreme tra il Canada e la Terra del Fuoco, in Argentina. Tanto per fare un esempio, l’attore americano ha dormito all’interno di carcasse di animali, ingoiato il fegato crudo di un bisonte, guadato un fiume gelido e rischiato ripetutamente di morire assiderato. Eppure, quando lo incontriamo all’hotel Four Seasons di Beverly Hills, Leonardo è di nuovo l’immagine della serenità, affascinante e magnetico come sempre. Non un redivivo, come l’uomo che interpreta in Revenant, ma un eterno divo, capace di dare ancora senso a uno star system hollywodiano in fase calante, al ritmo di appena un film all’anno. In questo caso, l’atipico western diretto da Iñárritu e tratto dalla storia vera narrata nel romanzo omonimo di Michael Punke, incentrata sulla sconvolgente vicenda ottocentesca del cacciatore di pelli Hugh Glass, tradito dai compagni, ferito da un orso e lasciato a morire tra le innevate terre selvagge.
Best Movie: Il regista ti ha consigliato di guardare qualche classico anni ’70 sugli uomini delle montagne e i cacciatori di pelli? Penso a titoli come Uomo bianco va’ col tuo dio con John Huston e Corvo rosso non avrai il mio scalpo con Robert Redford…
Leonardo DiCaprio: «No, i riferimenti di Alejandro sono stati i western di John Ford, i film di Tarkovskij e di Kurosawa, Fitzcarraldo di Werner Herzog e Apocalypse Now di Francis Ford Coppola. Dal punto di vista letterario, inoltre, si è rifatto a Jack London e a Joseph Conrad. Ma la sua maggior ispirazione è stato il romanzo Here Lies Hugh Glass: A Mountain Man, a Bear, and the Rise of the American Nation di Jon T. Coleman, uno storico che analizzò lo stato del suo Paese all’epoca».
BM: Cos’hai scoperto del periodo e dell’ambiente che fanno da sfondo al film?
L.D.C.: «Dal momento in cui ho iniziato a informarmi mi sono reso conto che era un tassello importante nella Storia americana, perché prima che il presidente degli Stati Uniti James K. Polk definisse i confini del paese (“from sea to shining sea”), quest’area era ancora una terra di nessuno, non regolamentata. Nel 1820, l’intero Oregon era abitato da cacciatori di pelli francesi e inglesi, ma anche dagli indigeni: le tribù Arikara e Pawnee, che vivevano ancora libere. Quella era un’America quasi senza legge, dove le persone agivano seguendo il proprio istinto di sopravvivenza. E Hugh Glass doveva integrarsi con queste comunità indigene, aveva anche avuto un figlio con una donna Pawnee; ma allo stesso tempo lavorava per i bianchi come scout».
BM: Hugh Glass sopporta sofferenze indicibili, camminando per oltre 200 miglia attraverso le montagne innevate per raggiungere il forte e vendicarsi. Ma il suo è anche un viaggio spirituale, guidato da un fantasma.
L.D.C.: «Alejandro ed io volevamo mettere in scena un viaggio esistenziale. La sceneggiatura è favolosa, ma la storia in sé è davvero molto lineare: un uomo viene aggredito da un orso e abbandonato dai compagni, quindi va alla ricerca del tizio che gli ha rovinato la vita. Questi per noi erano una sorta di grossi ‘segnalibri’, partendo dai quali abbiamo iniziato a pensare alla poesia di quello che quest’uomo attraversa, suggestionato da tutto ciò di cui fa esperienza nella natura selvaggia. Non è solo una survival story, né solamente un revenge movie: tratta della lotta interiore di un uomo che combatte per ritrovare la volontà di sopravvivere dopo aver perso tutto ciò che aveva».
BM: Viste le condizioni in cui avete girato hai fatto tu stesso esperienza di alcune di queste sensazioni?
L.D.C.:«Durante le riprese, immersi nel freddo delle montagne, abbiamo dovuto adattarci a ogni tipo di circostanza, e la nostra stessa lotta interiore, causata della frustrazione per i cambiamenti climatici, per le difficoltà legate al budget e per le altre complicazioni, è visibile sullo schermo: non c’è finzione, in questo film. Perciò girarlo ha rappresentato una sorta di percorso esistenziale sia per me che per Alejandro, ed è stato anche un viaggio spirituale per noi in molti sensi, perché rappresentava la perfetta fusione di violenza e bellezza, ed è proprio questo che volevamo: mettere in scena la brutalità e la bellezza della natura».
BM: Come hai espresso i sentimenti di Hugh senza parlare, visto che per la maggior parte del tempo sei solo nel bel mezzo delle terre selvagge?
L.D.C.: «Quella è stata per me la parte più eccitante del film, perché nella mia carriera ho interpretato molti personaggi davvero chiacchieroni, quindi Revenant: Redivivo è stato un esperimento. Quando ho letto lo script ho addirittura chiesto ad Alejandro di togliere ancora più battute, perché per me a importare era la raffigurazione. Hugh Glass è un uomo che non spreca parole, che va dritto al punto, perché non vuole dover necessariamente comunicare con le persone. Quello che attraversa lo vediamo nei suoi occhi, è così che viviamo la sua storia. Non servono parole. Inoltre, molto del mio agire nel film non è stato programmato, perché volevo cercare di reagire il più onestamente possibile a quello che la natura offriva».
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