Il Diario di Venezia 72 di Claudio Di Biagio, giorno 8: “non tutte le giornate riescono col buco”

Brian De Palma ha addolcito una giornata iniziata con la mia solita abilità di arrivare in ritardo...

Diario di bordo di una giornata fiacca e riflessiva per il mio Festival. Esattamente: non tutte le giornate vengono con buco qui, oggi non sono rimasto totalmente soddisfatto di ciò che ho visto.

Innanzitutto c’è da dire una cosa, chi mi conosce sa che sono un ritardatario e ieri mattina l’ho dimostrato in tutta la mia inadeguatezza arrivando trafelato in sala per vedere il primo film della giornata “11 minutes”. Perché vi dico questo? Perché essendo arrivato in ritardo sono stato piazzato sotto lo schermo con una cassa dell’impianto audio praticamente piantata davanti il mio orecchio destro e non era esattamente il film da vedere da quella posizione.

Un film tecnicamente ben curato, regia particolare e decisa, musiche molto potenti (anche troppo a volte) ma storia e personaggi prevedibili e senza sostanza. Si arriva ad un significato molto ben nascosto dentro il film sapendo ciò che succederà praticamente dall’inizio. Nota positiva l’attrice che interpreta la moglie, identica a Elliot di Scrubs.

Ok, usciamo dalla sala e andiamo a vedere il prossimo film, cerchiamo di continuare la giornata in crescita: “Heart of a Dog” di Laurie Anderson, moglie del defunto Lou Reed, un film raccontato dalla stessa regista che ci mostra l’elaborazione del lutto del suo cagnolino forse per collegarsi al lutto subito del marito.

Un film che divide letteralmente i pareri ed è anche questo il bello di questo festival: io non ho sentito minimamente un collegamento con il film e con la storia, ci sono all’interno molti concetti filosofici o “motivazionali” che personalmente non mi hanno toccato. Altre persone invece sono rimaste totalmente abbagliate addirittura piangendo dopo la visione del film.

Sto imparando qui che il cinema è davvero una delle arti più soggettive che esistano. E la riflessione mi viene anche da un pensiero: il regista, nel momento in cui deve realizzare la sua opera, si pone il dilemma del compromesso, vorrebbe realizzare qualcosa di totalmente suo ma deve fare i conti con l’approccio totalmente soggettivo e “ignorante” di pubblico e critica. Prima pensavo fosse un male, pensavo fosse la rovina questa seconda parte del processo e invece sto imparando quanto l’arte abbia bisogno di avere un pubblico che in modo indebito si appropri dell’atto creativo finito.

E ciò mi porta a concludere con un momento dolce e malinconico: il film documentario su Brian De Palma con sua presenza e premiazione in sala. Il docufilm è una lezione naturale e spontanea di cinema, un piano americano di De Palma che parla e racconta la sua vita e la sua carriera, niente di più, niente di meno. Perché dolce e perché malinconico? Dolce perché si vede quanto lui si diverta a fare il suo lavoro e malinconico per un concetto da lui presentato alla fine del film: citando un altro regista afferma che bisognerebbe smettere di fare questo mestiere quando non si è più in grado di camminare. L’ho visto sul red carpet e purtroppo credo la frase potesse essere presa in modo molto autobiografico.

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