Siamo in un futuro non così lontano, eppure la vita sul nostro pianeta è cambiata parecchio. Le città sono ridotte a baraccopoli, loculi impilati in cui le persone trascorrono gran parte della vita. Uno scenario post apocalittico in cui l’unico posto dove andare è OASIS, un immenso videogioco che ognuno può plasmare a suo gusto, un universo digitale talmente immersivo da aver sostituito la realtà. Entrarci è semplicissimo e funziona come la Realtà Virtuale che tutti conosciamo, solo evoluta: basta indossare un visore unito a una serie di controller e si è pronti per l’avventura. Questa routine alienante viene sconvolta quando James Halliday, l’eccentrico e geniale creatore di OASIS, muore lasciando il controllo del gioco nelle mani di chi riuscirà a trovare un easter egg nascosto all’interno della stessa opera. Una caccia al tesoro a cui partecipa anche Wade, un orfano che vive tra gli stacks (così vengono definite le baracche) nella suburbia di Oklahoma City, accanito utente di OASIS e deciso a scovarne il segreto.
Questo è lo scenario in cui prende vita Ready Player One, sci-fi ispirato all’omonimo romanzo scritto da Ernest Cline. L’unico uomo sulla terra in grado di realizzare e dirigere questo adattamento era Steven Spielberg e, per fortuna, il papà di E.T. ha deciso di salire a bordo di quella che si prospettava come un’impresa titanica. Il motivo è semplice: Wade, il protagonista, è un fan accanito degli anni ’80 e la sua versione di OASIS è un mondo in cui a ogni angolo c’è una citazione alla cultura pop di quell’epoca, da Indiana Jones alla DeLorean di Ritorno al futuro, dalla Pontiac di Supercar al Gigante di ferro, passando per Star Wars e Nightmare. Un caleidoscopio di franchise che hanno fatto la storia dell’entertainment nei decenni scorsi. E chi, se non Spielberg, sarebbe stato in grado di mettere mano a questa collezione sconfinata senza inanellare una causa legale dietro l’altra?
Il servizio completo è pubblicato su Best Movie di marzo, in edicola dal
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