Tracciate una linea che partendo da Refn arriva a Kitano e poi mettete una puntina in mezzo: più o meno lì trovate The Outsider, pur lontano dal carattere di entrambi. Questa natura derivativa è al tempo stesso un limite e un pregio, dove perfino la sequenza dei titoli di testa pare l’ennesima variazione sul modello True Detective. Vale la pena di pensare al film come a un B movie di qualità: manca un pensiero originale sui generi, non l’amore per i modelli e la capacità, talvolta, di evocarli.
Della trama è giusto dire pochissimo, visto che il film non offre coordinate, né una voce fuori campo o una didascalia: siamo in una prigione giapponese a metà degli anni ’60, dove un americano (Jared Leto) salva la vita a un gangster nipponico (Tadanobu Asano) per poi aiutarlo a evadere. In cambio sarà invitato ad entrare a far parte di una potente famiglia della yakuza, che ha il controllo di tutta Osaka.
Del protagonista Nick sappiamo poco e niente, anche perché parla pochissimo e mostra ancora meno. In questo senso è tale e quale al Julian di Only God Forgives: un alieno occidentale in Oriente che non viene spiegato, ma si definisce attraverso la violenza che scambia. Questo soprattutto c’è di Refn nel film, l’idea di un mondo in cui la violenza non è un momento del racconto, ma il suo contesto, il linguaggio che viene parlato da tutti. Mancano figure positive nel senso tradizionale del termine e si fa il tifo per un criminale, per la sola fedeltà che garantisce allo spirito della storia e all’ambiente che sceglie.
L’altra cosa interessante è che si lavora sul background dei personaggi il minimo indispensabile: capiamo quel che li muove sempre a posteriori, attraverso un dialogo o un incontro, senza insistenza. Così si scoprono “a strappi” una storia d’amore, una d’onore, una di gelosia e un brutto segreto; tutti si incastrano nella trama senza dar l’idea di ingombrare. C’è davvero una misura invidiabile in questo suggerire e poi fermarsi, una bella forma di controllo sia in chi l’ha scritto (Andrew Baldwin, che si occuperà anche del prossimo Bourne) che in chi l’ha diretto (Martin Zandvliet, quello dell’ottimo Land of Mine).
Poi certo, lo sguardo sulle tradizioni e la cultura che vengono raccontate – non serve un esperto di storia giapponese per accorgersene – è approssimativo, cioè accomodato per effetto drammatico, ma è un tipo di sospensione del pensiero critico che si sceglie sempre volentieri davanti a una bella narrazione e a una buona direzione. E questo è il caso.
Nota a margine: il film è bilingue (nella versione originale, che abbiamo visto), e parlato soprattutto in giapponese; la violenza è grafica e insistita. Quando si dice che Netflix consente scelte di qualità potenzialmente impopolari, si intende anche questo. Allo stesso tempo è giusto dire che il film è un’acquisizione, cioè Sarandos e co. non compaiono tra i produttori, si limitano a distribuire.
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