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La caduta dell’impero, alla scoperta dell’ultimo capitolo di Hunger Games

Katniss Everdeen è pronta a mettere a ferro e fuoco Capitol City e a polverizzare, una volta per tutte, il tirannico Presidente Snow. Ma non sarà facile: in questo gran finale di saga, l'eroina dovrà fronteggiare lucertole giganti, enormi onde nere ma soprattutto un ineluttabile senso di colpa. Perché una guerra, per quanto giusta, ha sempre un costo umano troppo alto...

Signore e signori, benvenuti ai 76esimi Hunger Games! Ebbene sì, i “giochi della fame” in cui 24 teenager si devono ammazzare a favore di camera non si sono estinti come tutti credevano. Hanno solo preso un’altra forma. Nel gran finale del franchise tratto dai romanzi di Suzanne Collins è infatti l’intera Capitol City a diventare la nuova arena, il nuovo palcoscenico per lo show sanguinario. La rivoluzione capitana da Katniss è alle porte e l’unico modo per arginarla è, ancora una volta, lo spettacolo del terrore: in quella nazione che una volta erano gli Stati Uniti e che ora si chiama Panem, la morte dei ribelli deve avvenire sotto i riflettori, ed essere la più scenografica possibile. Ecco perché il Presidente Coriolanus Snow (la cui anima glaciale e di sprezzante malvagità shakespeariana è sempre espressa da Donald Sutherland) ha fatto della città un campo minato di trappole. Trappole letali quanto visionare, architettate dai sadici strateghi dei vecchi Hunger Games e che si materializzano come muri di fuoco, ibridi di lucertoloni giganti, tsunami di color petrolio. Che lo show abbia inizio, allora, e possa decretare il vincitore. Un unico vincitore.Puntiamo le armi contro Capitol, puntiamo le armi contro Snow.

Ma facciamo un passo indietro. Il canto della rivolta – Parte 1 si concludeva con la liberazione degli ostaggi Peeta (Josh Hutcherson), Johanna (Jena Malone) e Annie (Stef Dawson). Una liberazione avvenuta con un po’ troppa facilità, e il motivo è presto spiegato: quello che era l’innamoratissimo ragazzo del pane è stato “depistato” da un lavaggio del cervello che ne ha fatto una bomba di odio contro Katniss. Così, mentre nel villaggio sotterraneo del Distretto 13, rifugio e base operativa dei rivoltosi, si cerca di “disinnescarlo”, fuori la rivoluzione ha preso piede e tutti i distretti si sono schierati sotto l’ala della Ghiandaia Imitatrice. Tutti tranne il 2. Lì c’è la montagna dell’Osso, roccaforte della forze militari di Capitol: espugnato quello si potrà sferrare l’attacco al Distretto 1.

A Capitol City va dunque in scena la battaglia finale, e il nemico numero 1 da abbattere è ovviamente Snow: «la vita non era nostra, apparteneva a lui, come la nostra morte. Ma se tu lo uccidi, Katniss, tutti questi morti avranno un senso» dice Peeta in un momento di lucidità ritrovata. Ancora più che nel capitolo precedente, in quest’ultimo film è guerra totale: «È la storia a essere diversa. Il Canto della Rivolta – Parte 1 era incentrato sulla manipolazione dei mezzi di comunicazione e sulla propaganda, mentre questo è un vero e proprio war movie» ha dichiarato il regista Francis Lawrence, autore di tre dei quattro episodi della serie che promette ora un alto tasso d’azione a partire da «una sequenza spettacolare ambientata nelle fognature che è entusiasmante». Per lui, sarà il capitolo più violento, ma anche quello con più effetti speciali, su cui infatti si lavora da ancora prima che la Parte 1 fosse uscita nei cinema. Un film di guerra totale in cui Capitol “mostra i muscoli” anche attraverso i suoi imponenti palazzi e i viali monumentali: le scene ambientate nella capitale sono state girate tra la periferia di Parigi e Berlino e lo scenografo Philip Messina ha dichiarato di essersi ispirato allo stile sovietico perché «l’architettura doveva evocare un regime dittatoriale. Una città solida, come un monolite».

Una guerra contro Snow ma anche contro se stessi
Non si combatte solo contro Snow. I protagonisti devono intraprendere anche e soprattutto una battaglia interna, psicologica, con se stessi. Il primo in questo senso è indubbiamente Peeta che, cerca di ricostruirsi una memoria distillando i ricordi veri nella massa di falsità indotte. Ma c’è anche Finnick, ragazzo indelebilmente segnato dagli abusi del passato; lui, così sicuro e affascinante davanti alle telecamere, nasconde una logorante fragilità e non è un caso che Sam Claflin, per interpretarlo, abbia preso come modello Marilyn Monroe, «una che in pubblico è davvero un’altra persona mentre quando si chiudono le porte è più che mai danneggiata e vulnerabile». Poi Johanna, che deve cancellare i fantasmi delle torture subite, e lo fa a modo suo in un rapporto di scontrosa amicizia con Katniss (sarà proprio Jena Malone, in questo episodio, ad avere il maggior minutaggio insieme alla Lawrence). Ma anche Gale (Liam Hemsworth), che abbraccia con innata fermezza gli ideali della rivoluzione quando invece la persona che ama non sembra avere la stessa passione incondizionata. Il riferimento è ovviamente a Katniss, leader riluttante che ogni giorno deve costringersi a combattere, ancora, nonostante le morti delle persone a lei care e il pericolo a cui sottopone i familiari. In primis la sorellina Prim (Willow Shields) che, ormai cresciuta, in realtà non vuole più essere protetta ma dare il suo contributo alla rivolta. Anche perché la posta in gioco non è più la sopravvivenza di un singolo, quanto il futuro di una nazione. Hunger Games è un film sull’orrore della guerra, e in questa luce va letta la dedica della scrittrice Suzanne Collins al papà Michael, ufficiale dell’aeronautica militare che aveva prestato servizio nella Guerra del Vietnam: «un abbraccio speciale al mio defunto padre che ha gettato le basi per questa serie con il suo profondo impegno nell’istruire i propri figli sulla guerra e sulla pace».

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