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La cura dal benessere: Roberto Recchioni racconta il talento debordante di Gore Verbinski

Il film gotico del regista di origini polacche è uno degli oggetti più bizzarri e affascinanti degli ultimi mesi. Ecco perché è interessante, nonostante non sia del tutto riuscito

Da febbraio 2016, Roberto Recchioni (fumettista e romanziere, oltre che curatore di Dylan Dog per la Sergio Bonelli Editore) firma su Best Movie A scena aperta, rubrica in cui svela i segreti delle scene più belle dei film disponibili in home video.

L’esordio hollywoodiano di Gore Verbinski poteva passare del tutto inosservato, trattandosi di Un topolino sotto sfratto, una di quelle commedie figlie del filone inaugurato da John Hughes con Mamma ho perso l’aereo e poi declinato in ogni modo e maniera da un esercito di emuli (e da Hughes stesso). Però, come esordio, aveva qualcosa di speciale: una regia spericolata, visionaria e tremendamente raffinata sul piano tecnico, che lo faceva distinguere dalla massa di prodotti simili. Impressione mantenuta dal film successivo di Verbinski, The Mexican, commedia action con Brad Pitt e Julia Roberts in cui il talento visivo del regista, nuovamente alle prese con un film lontano dalle sue corde narrative, riusciva a emergere comunque. Molto meglio andò con il remake di The Ring, rifacimento di un horror giapponese di grande successo che non solo seppe superare la matrice originale ma che permise a Gore di dare libero sfogo a tutto quello che sapeva fare.

Il resto, come si suol dire, è storia: il primo successo planetario dei Pirati dei Caraibi, poi l’adorabile e strambo The Weather Man (forse l’ultimo film davvero bello con Nicolas Cage), altri due film legati al franchise Disney (di successo sempre crescente) e un Oscar come miglior film d’animazione con Rango. Poi il flop colossale di The Lone Ranger, per riprendersi dal quale Verbinski ha deciso di girare un film piccolino e misurato: La cura dal benessere.

Adesso, in questa rubrica, io dovrei parlarvi di come il linguaggio di una singola scena sia raffinato e al servizio del racconto, il problema è che nell’ultima fatica di Verbinski questo non succede mai. Provo a spiegarmi: il film è quella che si potrebbe definire come “una novella gotica basilare”. Lo script ha pochissimi guizzi narrativi e ancora meno idee e basta aver letto anche un singolo romanzo vittoriano di genere orrorifico per anticipare tutte le svolte della trama e la sua conclusione. In uno scenario narrativo così piatto, lo stile di Verbinski avrebbe dovuto fare da reagente chimico, immettendo vita nella materia immota. E il regista ci prova con tutto se stesso a farlo. Nella splendida sequenza iniziale, per esempio, con il suo lento incedere tra i palazzi di Manhattan, mai così inquietanti e spettrali. O nella suggestiva e inedita ripresa del viaggio in treno del protagonista verso la Svizzera, qui raccontata come fossero i Carpazi di Dracula. O in tanti altri momenti serviti da una raffinatissima composizione dell’immagine. Il problema però è che la maggior parte di questi tocchi di classe sono solo esercizi di forma, non necessari al racconto e, soprattutto, di nessun significato narrativo. Prendiamo, per esempio, la bella scena dell’incidente d’auto.

Il protagonista, un Dane DeHaan che gioca a fare DiCaprio per tutto il film, è a bordo di una limousine e sta abbandonando la casa di cura. L’auto sta percorrendo una strada a spirale e il nostro eroe guarda fuori dal finestrino (1).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

A un certo punto vediamo, in piedi su un alto bastione, la figura di una ragazza (2).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dane la scorge e comincia a seguirla con lo sguardo, costretto a voltarsi a destra e a sinistra a causa dell’andamento circoncentrico dell’auto (3).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Quando ormai la fanciulla è lontana, il nostro eroe torna a posare l’occhio sulla strada, giusto in tempo per vedere un cervo spuntare dalla vegetazione. È il disastro: il conducente della limo non riesce a frenare in tempo, l’animale viene investito e caracolla sul cofano, con le corna che bucano il parabrezza. La camera si sposta fuori dall’abitacolo per farci vedere l’auto che finisce fuori strada (4),

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

e poi di nuovo dentro, a ruotare assieme alla carcassa metallica fino al crash finale (5).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Un attimo di pausa. Di quinta, la ruota della limousine ribaltata, al centro la strada. Il cervo, massacrato dall’impatto, striscia morente sull’asfalto fino a crollare morto (6).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La scena è uno sfoggio di tecnica maestosa, non inferiore a tante altre girate da Verbinski, purtroppo è al servizio di un momento narrativo che ha uno scopo puramente meccanico. Come sequenza è il corrispettivo di un virtuoso assolo di chitarra elettrica di cinque minuti, piazzato però a caso all’interno di una canzone. È una scena che serve al regista per ricordarci quanto è bravo e quanto sarebbe capace di un registro molto più ardito di quello che il film gli impone ma che, proprio per questo, è del tutto disfunzionale alla narrazione. Perché, di fatto, l’unica funzione di quella sequenza è fare in modo che il protagonista diventi il paziente della clinica e tutta la spettacolarità con cui è raccontata non la arricchisce o la rende più profonda di una virgola. Il cinema di Verbinski funziona bene quando nasce dalle sue idee visive, su cui poi gli sceneggiatori si preoccupano di innestare una trama capace di fare da collante (così come accade in tutta la trilogia dei Caraibi, ma anche nello stralunato dramma con Cage) e non quando viene applicato il processo contrario, partendo dallo script e scavando in esso i momenti in cui il regista può fare il suo. È un’idea di cinema atavica e primordiale, dove domina la composizione dell’immagine e il movimento, e non è forse un caso che il punto più alto della sua intera carriera il regista lo abbia raggiunto nella conclusione del terzo atto di The Lone Ranger, in un assalto al treno che è tanto omaggio al cinema muto del tempo che fu, quanto reinvenzione della ruota. E il problema non nasce dal fatto che La cura dal benessere sia un film piccolo nei mezzi (perché non lo è), quanto che sia un film piccolo nelle ambizioni e nella sua visione, e che l’occhio di Verbinski sia, invece, enorme. Il risultato è una pellicola trascurabile nel suo complesso, ma interessante nei singoli momenti. A patto di prendere questi momenti per quello che sono: uno sfoggio di talento messo, purtroppo, al servizio del niente.

 

 

La cura dal benessere è disponibile in home video dal 25 agosto.

 

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