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L’isola dei cani: la recensione del nuovo film d’animazione di Wes Anderson, Orso d’Argento a Berlino

L'opera, in sala a maggio, riprende la tecnica usata dal regista per Fantastic Mr.Fox, per raccontare una storia ambientata nel futuro e in Giappone, con protagonisti un gruppo di cani in pericolo di vita…

L’isola dei cani: la recensione del nuovo film d’animazione di Wes Anderson, Orso d’Argento a Berlino

L'opera, in sala a maggio, riprende la tecnica usata dal regista per Fantastic Mr.Fox, per raccontare una storia ambientata nel futuro e in Giappone, con protagonisti un gruppo di cani in pericolo di vita…

L'isola dei cani

Più che cinema, arredamento. Il cinema di Wes Anderson combatte da sempre il pregiudizio innescato dalla sua simulazione di bidimensionalità: abbondanza di inquadrature frontali, movimenti di macchina lungo gli assi cartesiani, scenografie cartoonesche, recitazione brechtiana. Un pregiudizio alimentato dal saccheggio costante a cui la cultura pubblicitaria occidentale ha sottoposto i suoi film dai Tenenbaum in poi. La questione è: questo disequilibrio tra forma e contenuto è indice di superficialità o di forza espressiva?

L’isola dei cani, secondo film in stop-motion del regista dopo Fantastic Mr.Fox, è un contributo al dibattito che farà felice i sostenitori di Anderson, perché stavolta la metafora politica è chiara e la messa in scena la serve in modo potente.

Giappone, futuro prossimo: un’epidemia di influenza canina convince il governo, sostenuto dall’indignazione popolare, a esiliare tutti i cani su un’isola-discarica al largo di Tokyo, nonostante un’equipe medica sostenga di aver trovato un antidoto. Qui, dopo alcuni anni, atterra con un piccolo biplano a motore un ragazzo, in cerca del suo animale. Lo aiuteranno nella ricerca quattro cani addomesticati e un randagio, mentre dall’altra parte del mare si sta mettendo a punto un piano per bombardare l’isola e sterminare tutti i sopravvissuti.

Utilizzare l’animale domestico per eccellenza per intavolare un discorso sul panico di massa come movente politico e la crudeltà disumana del potere nei confronti delle minoranze non votanti (non monetizzabili), è un’intuizione semplice ed efficace. Per giunta la storia è così lineare – senza considerare l’età del protagonista umano – che verrebbe quasi da etichettarlo come “un film per ragazzi che può piacere anche agli adulti”, non diversamente dalla maggior parte delle cose fatte in stop-motion dalla Aardman. In realtà nella definizione c’è già tutto il paradosso commerciale di un cinema fin troppo raffinato, che non ha un target ben chiaro e richiede a tutti i pubblici prima di tutto un certo palato.

Perché allora questo potrebbe essere l’Anderson migliore, anche per i non fan? Perché la storia e i suoi protagonisti seguono – tra disvelamenti di identità, intrecci d’amore e una costante minaccia bellica – il manuale del romanzo d’avventura, quindi è facile appassionarsi al racconto, al di là della sua eccentricità e delle fissazioni del regista. Che restano le stesse, dall’elogio della natura selvaggia, non civilizzata (“Non potrei mai innamorarmi di una bestia addomesticata”), alla necessità di uno sguardo infantile – di nuovo, non addestrato – per rompere schemi e convenzioni sociali, portatori di una depressione cronica e generalizzata.

Poi certo, il piacere del collage e la stilizzazione sono sempre lì, serviti da un livello tecnico della stop-motion strepitoso e da un design di produzione ricco quanto bizzarro. E l’ironia è obliqua e stralunata, cioè si ride (chi ride) senza aver bene chiaro il perché. Ma un certo livello di riconoscenza sentimentale e politica dovrebbero essere di tutti.

Foto: © American Empirical PicturesIndian PaintbrushScott Rudin Productions, 20th Century Fox

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