Lo Hobbit – La desolazione di Smaug: tutti a bocca aperta di fronte al drago. La nostra recensione del film!

Peter Jackson confeziona uno spettacolo maestoso e a tratti molto cupo, centrando almeno due sequenze da urlo. Ma il triangolo, no...

Nella sua tana piena d’oro, dentro il ventre di Erebor, Smaug riposa silente tra dobloni e pietruzze. E Bilbo – che un’avventura dopo l’altra cresce in coraggio e astuzia, ma non in cautela – naturalmente lo sveglia. Qui inizia la battaglia, in fondo la più attesa di tutta la Trilogia, perché la più “diversa”: lo scontro tra predatore, Hobbit e nani per il controllo della Montagna Solitaria. Ed è sempre qui, negli ultimi 40 minuti, che il film definitivamente decolla, mettendo il punto al lungo passeggiare della compagnia e alle tante cartoline turistiche dalla Terra di Mezzo. Smaug è fluido, imponente e minaccioso – il lavoro con la motion capture di Benedict Cumberbatch ha lasciato il segno – e se anche non possiamo sentire la voce da villain di quest’ultimo (già spolverata per il Khan di Star Trek), il timbro straordinario di Luca Ward rende al mostro identico servizio. Sui primi 120 minuti del film il giudizio è più difficile. Il problema, se c’è, è sempre nell’estensione a misure da serial televisivo (8 ore almeno, contando i tre film) di un romanzo di poco più di 300 pagine. Questo non solo comporta un accumulo di scontri presi dal libro (le varie battaglie con gli orchi, la fuga da Beorn, l’agguato dei ragni) non tutti narrativamente essenziali, ma anche l’aggiunta di un triangolo amoroso elfo-nanico che nel romanzo non c’è affatto e che serve a introdurre (per la gioia dei fan) Legolas e Tauriel (Orlando Bloom ed Evangeline Lilly). Purtroppo il tutto risulta un po’ impacciato, le sfumature rosa approssimative e fuori tono rispetto al resto. D’altra parte il pregio delle avventure tolkieniane è sempre stato nella loro semplicità archetipica: il proverbiale Viaggio dell’Eroe verso la consapevolezza è – appunto – un viaggio, la classica Odissea omerica. L’obiettivo finale sono la ricchezza (ma anche il recupero delle proprie origini, del proprio territorio), e ogni tappa comporta una ridiscussione delle priorità personali: potere o amicizia, lealtà o mascheramento, pazienza o ardore. Posto quindi che alla dinamica costante spostamento-scontro-spostamento-scontro non si può contravvenire, la domanda deve riguardare soprattutto la messa in scena delle battaglie. E qui Jackson ottiene risultati clamorosi: non solo giocandosi la carta Smaug, ma anche nell’incredibile scena della fuga via acqua nei barili, un folle inseguimento con momenti di piano sequenza acrobatici e quasi tutti digitali da restarci secchi. In definitiva La desolazione di Smaug è uno spettacolo maestoso, più cupo del primo episodio, che solletica a lungo la curiosità degli appassionati per poi gratificarli nell’ultima mezz’ora con una “infuocata” resa dei conti. Il cliffhanger che chiude il film apre le porte di Erebor ai cieli di Pontelagolungo e prelude all’ultimo assedio: abbiamo un anno intero per tenere il fiato sospeso.

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