Luca Guadagnino ha saputo giusto ieri che il suo Chiamami col tuo nome è il primo film di un regista italiano a essere candidato di prepotenza agli Oscar nelle categorie principali dal 1998, quando ci riuscì Roberto Benigni con La vita è bella. L’ultimo lavoro del regista palermitano, nelle sale italiane da domani (qui la nostra recensione), è nominato come miglior film, miglior attore protagonista (il giovanissimo Timothée Chalamet, americano di origini francesi, appena ventiduenne: un record), miglior sceneggiatura originale (James Ivory, quasi novantenne: altro record) e miglior canzone originale (l’incantevole Mystery of Love di Sufjan Stevens).
Appena il giorno dopo questo incredibile risultato, frutto di un film di miracolosa leggerezza di sguardo e di mirabile profondità sentimentale, incontriamo in un albergo romano del centro in cui è allestita la conferenza stampa di Chiamami col tuo nome il regista e i due protagonisti: Chalamet e Armie Hammer, Elio e Oliver, protagonisti sullo schermo di un’intensa estate nella campagna cremasca, a misura di amore, di scoperta, di bellezza.
A Guadagnino, in apertura, viene fatta notare la presenza di una foto sui social in cui abbraccia Gabriele Muccino, inizialmente attribuita a lui ma che si scopre poi essere stata condivisa proprio da quest’ultimo: «Non l’ho messa io, non ho i social e non ho proprio idea di come si usano, non saprei da dove cominciare». La vera notizia del giorno, però, non può che essere il suo risveglio da nominato all’Oscar: «È tutto un po’ strano e molto bello, però sono nel bel mezzo della lavorazione di un altro film (il rifacimento di Suspiria di Dario Argento, ndr) e ho il privilegio di poter guardare le cose in prospettiva».
Il progetto Chiamami con il tuo nome, da cui si parla trionfalmente da un anno, fin dal Sundance 2017, si è messo sulla strada di Guadagnino anche in virtù della sua italianità, com’è lo stesso regista a spiegare: «Ho iniziato a essere coinvolto attraverso dei miei amici produttori americani dato che il romanzo si svolge in Italia, anche se l’autore, André Aciman, non indica dove. Mi chiesero di leggere il libro per loro, di dargli una consulenza sull’Italia raccontata nel romanzo, che poi è la Liguria, Bordighera. A quel tempo stavo preparando Io sono l’amore ed ero proprio in Liguria quando mi hanno chiamato. C’è stato un luogo periodo alla ricerca del regista giusto, siamo passati, come produttori, da Gabriele Muccino, da Sam Taylor-Johnson e da James Ivory. Poi, dopo nove anni in cui il film era faticosamente tenuto in vita ma senza partire, si capì che era il caso lo facessi io con un budget minimale. Magari continueremo questa storia, guardando con umiltà alla lezione di Truffaut. Sicuramente Antoine Doinel ce l’abbiamo già ed è Timothée Chalamet…».
«Timothée – prosegue il regista – l’avevo incontrato tre o quattro anni prima l’inizio delle riprese, in qualità di produttore, perché il suo agente è anche marito di uno dei nostri produttori e aveva posto alla nostra attenzione questo ragazzo giovane ma già veterano. Il pranzo con Timothée è stata un’epifania, ho incontrato davvero Elio e una grande voce del cinema americano contemporaneo. Avevo visto Homeland, di suo, Interstellar, dove faceva la versione giovane di Casey Affleck. Armie lo incontrai la prima nel 2010 ai tempi di The Social Network».
Quando la parola passa proprio a lui, Chalamet, che ha volutamente deciso di non parlare della scelta di donare il suo salario per A Rainy Day in New York di Woody Allen a Time’s Up, non si esprime certo in italiano, pur avendolo imparato un po’ per il film: «Sono rimasto sorpreso, però, di essere riuscito a capire gran parte di quello che ha detto Luca! Incontrai Luca a New York, avevo appena 17 anni. Ci sono voluti tre anni per fare il film, come spesso accade in America coi film indipendenti».
«Quando il progetto mi è stato presentato – continua Chalamet – mi sembrava un dono, un regalo, una di quelle possibilità più uniche che rare, perché è davvero insolito, se si è giovani, essere coinvolti in ruoli che non siano il fidanzato, l’amico di famiglia o altre parti non complesse né particolarmente impegnative. Qui invece avevo un ruolo complesso, sofisticato e articolato e la speranza era di farlo a 18, 19, 20 anni e alla fine è stato finalmente possibile girare a Crema con Luca! La sequenza in cui Elio suona il pianoforte è stata la più dura per me per risultare credibile, perché nel libro Elio è descritto come un pianista piuttosto valido. Ho studiato l’italiano e il pianoforte per un mese e mezzo».
Armie Hammer, se possibile, si mostra ancora più entusiasta del primo incontro con Guadagnino, parlandone in maniera incantata e rilassata, sprofondato in una comodissima tuta Adidas. «Incontri del genere generalmente possono durare tre quarti d’ora, massimo un’ora. Noi abbiamo passato quattro ore a mangiare, parlare di arte, filosofia, libri, a bere caffé, pensai di avercela fatta! Poi ricevetti una telefonata dal mio agente 6 anni e mezzo dopo il 2010, mi diceva che Luca mi aveva mandato una sceneggiatura ed era il caso di leggerla. Lo scambio più forte che ho avuto con lui per questo film riguarda la paura e il desiderio, il modo in cui sono spesso l’una l’altra faccia dell’altra».
Quando la parola torna a Luca Guadagnino, lo sguardo non può che essere rivolto ai prossimi Oscar: «Il giorno prima delle nomination abbiamo festeggiato un anno dalla prima proiezione di questo film al Sundance e da lì abbiamo ricevuto un’accoglienza che ci ha stupito, che non avevamo previsto. Io e il mio montatore Walter Fasano eravamo convinti di aver fatto un buon film, lo dico senza bisogno di essere ipocrita, ma non immaginavamo questa risonanza, ne siamo felici e orgogliosi. Uomini, donne, giovani, anziani mi mandano a casa – non so come abbiamo il mio indirizzo, ma ce l’hanno – lettere bellissime, dove giudicano trasformativa l’esperienza di visione del film, come se risolvesse dei loro nodi interiori. Forse perché è un film sull’empatia, sulla compassione, sulla trasmissione del sapere, sulla capacità di guardarsi nello sguardo dell’altro. Forme emotive necessarie, in una contemporaneità atomizzata, separata, arrabbiata».
«I miei rapporti col cinema italiano sono splendidi – precisa ancora il regista in risposta all’immancabile domanda sul suo essere antipatico a mezzo ambiente cinematografico italiano, soprattutto romano – ho tanti amici registi con cui sono in contatto, come testimonia il post di oggi di Gabriele (Muccino, ndr). Non mi sento un solitario, ma la mia formazione, all’insegna delle nouvelle vague, mi ha insegnato la trasversalità, a superare geograficamente le nazioni di provenienza dei film. Sicuramente sono stato anche influenzato da Palermo, l’inconscio non mente mai e il nostro passato ci trapassa. Da quella città penso di aver imparato la sensualità di un luogo anche molto aggressivo, violento».
Guadagnino in questi mesi grazie a Chiamami col tuo nome ha fatto in compenso il pieno di dichiarazioni di stima internazionali, da Pedro Almodóvar a Paul Thomas Anderson fino ad arrivare forse all’ultima in ordine di tempo, la più inaspettata (e non ancora svelata): «Ai Golden Globes ho visto arrivare questo signore così elegante, che si avvicinava verso di me ed è stato impressionante e inaspettato perché era Christopher Nolan. Mi ha detto una frase che mi ha riempito d’orgoglio, soprattutto perché io mi considero un artigiano, ovvero che il modo in cui avevamo messo in scena gli anni Ottanta era impressionante. Detto da lui… ».
Foto: Getty Images
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