Magic in the Moonlight è un po’ il testamento di Woody. La nostra recensione

Il 79enne Allen ci ripensa e abbandona in questo film l'atteggiamento ateo, nichilista e razionale dei film precedenti, puntando tutto sull'amore nel suo film più romantico di sempre

Continua la lunga trasferta di Woody Allen in terra europea. Dopo Barcellona, Parigi, Londra e Roma, il regista newyorchese si accoccola nella luminosa Costa azzurra, regione dominata da elitari possidenti di villone e parchi fioriti antistanti la riviera e in perenne villeggiatura. La location è ideale per insediarvi la sua nuova brillante commedia, sulla scia di screwball e sophisticated comedy ma in assenza del sapore pepato di quelle commedie anni ’30, ammansita com’è da toni più smorzati e delicati.

Berlino, 1928. Colin Firth è il mago pseudo-cinese Wei Ling Soo, prestigiatore di fama mondiale capace di far sparire un elefante o di teletrasportarsi davanti al suo pubblico estasiato. Dietro alla maschera di Wei Ling si nasconde in realtà Stanley Crawford, gentiluomo inglese saccente e dal pessimo carattere che accetta la sfida di un collega di smascherare una sedicente medium, la quale ha irretito con le sue astuzie e i suoi supposti poteri una ricchissima famiglia in villeggiatura sulla costa francese.

Sarà l’amico a introdurlo nella dimora dei facoltosi Catledge sotto la falsa identità di businessman. La deliziosa sensitiva Sophie Baker (Emma Stone) indovinerà parecchi dettagli privati della vita di Stanley, facendo incrinare il suo scetticismo, ma soprattutto – tra una seduta spiritica e l’altra – lo incanterà con i suoi occhioni chiari, i vestitini color pastello, i cappellini con la cloche a motivi floreali e lo spirito brioso, mettendo in seria crisi la sua recidiva intolleranza verso il sovrannaturale.

Il film è soprattutto questo: uno scontro tra fredde posizioni empiriche basate solo sui cinque sensi e la calorosa consolazione del sesto senso e del mistero; una dissertazione a suon di battibecchi (dietro ai quali si nasconde l’attrazione irresistibile tra i due), in cui l’agnostico ammette il suo desiderio di essere sconfitto da qualcosa di ineffabile, di essere vinto dalla potenza del magico. Dietro a questo desiderio, in realtà, si muove il sentimento più illogico e meno inquadrabile di tutti: l’amore. E sarà proprio l’innamoramento per una persona così opposta a lui a trasformare Stanley in un uomo nuovo, a prescindere dall’effettiva credibilità dei poteri di Sophie.

Stupisce che un film così romantico – senz’altro il suo più romantico di sempre -, arrivi dopo il duro e cinico Blue Jasmine. Pur se quest’ultimo era sicuramente più coerente nell’alveo della filmografia alleniana, Magic in the Moonlight sembra avere una funzione di remissione rispetto all’ateismo e al cieco razionalismo da sempre proclamati dal regista. «Il mondo forse non ha scopo, ma non è del tutto privo di magia» gli dice sua Zia Vanessa e questa magia, ripete insistentemente Woody tra le pieghe di questo film, si chiama amore.

Ripensando alla ferocia di film come Match Point e Blue Jasmine o al cinismo di fondo di Vicky Cristina Barcelona, Magic in the Moonlight suona come una dichiarazione testamentaria da parte del 79enne regista (ha compiuto gli anni due giorni fa), una sorta di revisionismo storico delle sue pellicole precedenti. Pur se l’illusionismo e la divinazione lo avevano sempre attratto (La maledizione dello scorpione di giada, Scoop, Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni), venivano sempre trattati con un atteggiamento irridente. Persino l’inganno trova qui una giustificazione plausibile rispetto all’umanissima ricerca della felicità.

Magic in the Moonlight (che uscirà domani nei cinema) può essere vissuto in due modi: un divertissement leggero e frizzante come la brezza della Cote Azur o un messaggio preciso a chi conosce la sua visione del mondo. E tuttavia, nonostante le nobilissime intenzioni e la confezione raffinata, intrisa fino in fondo di tutte le cose belle a cui Allen ci ha abituati (la fotografia pregiata, i costumi retrò, le decappotabili e la musica jazz eccetera eccetera), è difficile perdonargli l’assenza di battute che facciano davvero ridere, l’iterazione stancante degli stessi concetti nei dialoghi e una parte centrale che si stiracchia pigramente verso il finale in cui non succede assolutamente nulla. È un film di Woody Allen a tutti gli effetti, ma troppo champagne per lasciare davvero il segno.

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