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Non buttiamoci giù, quattro personaggi in cerca d’amore. La nostra recensione

Quattro aspiranti suicidi che finiscono per diventare amici. Nel film di Pascal Chaumeil sfuggono il come e il perché...

Non buttiamoci giù, quattro personaggi in cerca d’amore. La nostra recensione

Quattro aspiranti suicidi che finiscono per diventare amici. Nel film di Pascal Chaumeil sfuggono il come e il perché...

Il tetto della Topper’s Tower di Londra è una delle location privilegiate dagli aspiranti suicidi. Talmente ambita che la sera di Capodanno su quello stesso cornicione si incontrano Martin (Pierce Brosnan), ex conduttore televisivo la cui vita si è frantumata il giorno in cui ha iniziato a flirtare con una minorenne, Maureen (Toni Collette), madre single di un ragazzo affetto da una grave forma di paralisi celebrale, Jess (Imogen Poots), figlia di un noto politico con una situazione famigliare e sentimentale parecchio complicate, e J.J. (Aaron Paul), musicista americano che non è riuscito a realizzare il sogno di diventare una rockstar e vive (meglio, sopravvive) consegnando pizze. Impossibile a quel punto pensare di portare a termine il piano, meglio rimandare l’appuntamento con la morte almeno fino a San Valentino, come stabilito dal patto che suggellano all’alba (letteralmente) del nuovo anno. Tutti saranno capaci di mantenere la parola data?

Quattro personaggi in cerca d’amore – nelle sue svariate declinazioni – che il regista Pascal Chaumeil (Il truffacuori, Un piano perfetto) “ruba” dall’omonimo romanzo di Nick Hornby. Peccato che nel processo di traduzione molto dell’originale venga perso. Fisiologico, direte voi. Vero, ma fino a un certo punto. Perché quando l’adattamento si ferma allo strato epidermico del racconto senza mai penetrare in profondità e scavare nelle vite dei personaggi – nelle loro motivazioni così come nel loro disagio –, e sfruttando una vacanza a Tenerife (e poche altre sequenze) per giustificare le dinamiche relazionali che si instaurano tra di loro, cambiando le loro prospettive, qualcosa inevitabilmente manca.

Manca il realismo di cui è intessuto il testo di Hornby, capace di rendere credibili personaggi e situazioni così bizzarre e al limite. Mancano protagonisti realmente consistenti, che se non fosse per gli attori che li interpretano, risulterebbero privi di uno scheletro in grado di sostenerli. Manca una sceneggiatura che funga da collante all’interno di una storia composta da tante parti, che dovrebbero funzionare nel loro insieme e non solo singolarmente. Prendiamo in prestito le parole di un celebre discorso di Steve Jobs per rendere meglio l’idea: «connecting the dots», collegare i punti. Ecco, quello che sfugge nel film di Chaumeil sono proprio questi collegamenti, spesso dati per scontato, a volte appena tratteggiati, altre troppo forzati. Cosa lega Martin, Maureen, Jess e J.J. a tal punto da convincerli a continuare a frequentarsi? Come quattro perfetti sconosciuti finiscono per diventare amici e correre in soccorso l’uno dell’altro nei momenti più drammatici? Su cosa realmente si fonda la relazione tra di loro?

Sono tutte domande che rimangono inevase e condizionano la visione di un film comunque piacevole, che si regge su singole scene, alcune molto toccanti (quella in cui Maureen si prende cura del figlio) altre decisamente divertenti, dove i momenti più interessanti risultano quelli in cui vengono messe a nudo le debolezze dei personaggi. Ma che non riesce a mantenersi in perfetto equilibrio, a cavallo tra il versante drammatico e quello comico. Soprattutto non riesce a innescare nello spettatore una reale riflessione sulla vita, prima ancora che sulla morte, a interrogarlo e a mettere in discussione le sue posizioni morali.

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