Paolo Virzì su Ella & John: «La mia coppia americana, ma passionale come gli italiani»

All'ultimo Festival di Venezia abbiamo incontrato il regista livornese per farci raccontare i dettagli del suo primo film in lingua inglese

The Leisure Seeker di Paolo Virzì a Venezia 74

Apprezzatissimo dalla stampa italiana e dal pubblico, molto meno dalla stampa internazionale e in particolare americana, che gli ha rimproverato una certa approssimazione nel modo di ritrarre gli Stati Uniti della campagna elettorale del 2016. The Leisure Seeker, che arriverà nelle sale il prossimo 25 gennaio con il titolo Ella & John, è stato tra i film che più hanno emozionato gli spettatori del festival (usciti in gran maggioranza con gli occhi umidi), ma anche uno di quelli che ha fatto discutere di più, nonostante le performance straordinarie dei suoi due interpreti – Donald Sutherland ed Helen Mirren -, impegnati nel ruolo di una coppia di anziani coniugi, che decidono di concedersi un ultimo viaggio on the road a bordo del loro vecchio camper. Di tutto questo abbiamo parlato con un emozionantissimo Paolo Virzì, tornato in concorso a Venezia 20 anni dopo Ovosodo.

Ti aspettavi questa accoglienza? La stampa italiana ha accolto il tuo film con entusiasmo.
«Io sono uno che si aspetta sempre il peggio, ma ammetto che 20 anni fa, con Ovosodo, la sera prima della proiezione avevo dormito benissimo, mentre stavolta non ho chiuso occhio. Con il tempo non si migliora, si diventa più fragili, più stupidi. E anche il mio film vuole raccontare questo, una fuga irragionevole, folle e dolente. Mi fa piacere che sia andata bene». 

So che quando ti hanno proposto il film hai detto che lo avresti fatto solo con Helen Mirren e Donald Sutherland. Che caratteristiche hanno che tu cercavi?
«Il processo creativo parte da un libro che ha però un’altra ambientazione: John è un vecchio operaio e con la moglie vogliono andare a Disneyland. Invece volevamo qualcuno che fosse più simile a noi italiani, per questo ho scelto un professore di letteratura, che mentre la sua mente svanisce abita le pagine che ha amato e insegnato. Dopodiché, forse perché Animal House è stato un film-mito per me, quando mi sono immaginato un professore americano ho pensato subito a Sutherland, con la giacca di pelle che insegna agli allievi a fumare le canne».

E Helen Mirren?
«Perché ho da sempre una devozione e un innamoramento per lei, così acuta e capace di sorprenderti anche nei film brutti. Mi dicevo che, se ci fosse stata lei, almeno una cosa – il suo personaggio – sarebbe di certo venuta bene. I produttori all’inizio mi avevano proposto Robert Redford e Jane Fonda, che poi hanno fatto un altro film insieme (Our Souls at Night, ndr), e io ho rilanciato. Helen non voleva accettare perché si era ripromessa di aspettare qualche anno prima di interpretare ruoli “da anziana morente”, ma poi ha letto la sceneggiatura e se ne è innamorata».

Oltre a quanto hai già accennato, avete fatto parecchi altri cambiamenti rispetto al romanzo.
«Il libro non ha quasi trama, è un diario di viaggio con la voce di Ella, mentre John è molto più assente, non ci sono ossessioni né gelosie. La sceneggiatura è più passionale, più “italiana”. Ci ha aiutato a dare l’idea di un amore coniugale che non è un idillio ma una sfida continua, un mescolarsi di ossessioni, e di comicità. Non volevamo italianizzare l’America, ma abbiamo anche voluto evitare i cliché tipicamente americani e per questo non c’è la Route 66. Cercavamo la verità di una nazione autentica».

Con un cast così esperto, come hai mantenuto il controllo?
«Donald e Helen sono così intelligenti, due grandi artisti, che erano davvero diventati i personaggi che stavano interpretando. Lui addirittura non voleva che gli autisti gli spostassero il camper tra una scena e l’altra. Quando ho capito che ormai erano completamente in parte mi sono rilassato e ho iniziato a godermi lo show. Stava succedendo qualcosa di magico, hanno anche improvvisato perché mi piaceva lasciarli andare a briglia sciolta, e capitava che continuassi a girare anche a scena finita».

Possiamo dire che si tratta di un film diverso rispetto ai tuoi precedenti?
«Io sono da sempre un tipo ansioso e mi è capitato spesso di riempire fin troppo i miei copioni. Questa volta ho cercato di non avere paura dei silenzi, di mantenere un passo più languido e meno frenetico rispetto all’altra fuga che avevo appena raccontato (in La pazza gioia, ndr). Era la mia vera sfida, la vera novità, più della lingua, più del territorio».

Quali sono invece state le difficoltà maggiori?
«La rigidezza del sistema del filmmaking americano, lì l’industria del cinema è davvero importante e i sindacati dettano legge, è tutto strettamente regolamentato, avremmo dovuto rispettare certi tempi, certe pause, certi ritmi. Ma abbiamo cercato di fare come a casa nostra, per non smettere mai di catturare quello che questi due erano capaci di creare». 

C’è chi dice che hai perso qualcosa in cinismo e guadagnato molto in romanticismo. Concordi?
«Non mi interrogo troppo su certe cose, ma è certo che mi interessa provare a guardare la vita in un modo più adulto, il che non vuol dire avere più pazienza o saggezza ma conoscere il dolore, essere più vulnerabile. L’idea della morte, della vita, del cosa c’è dopo, sono pensieri che mi toccano davvero. Io non sono religioso ma credo nell’esistenza dell’anima e mi interrogo sempre più spesso su queste cose che di conseguenza entrano nel linguaggio dei miei film. La parola romantico una volta poteva preoccuparmi adesso mi fa piacere. Ma se si racconta l’amore bisogna anche essere un po’ stronzi e dire quanto siamo fragili e quanto ci facciamo male quando ci amiamo». 

Nel finale, che non anticipiamo, fai una scelta precisa e forte, e a una parte del pubblico potrebbe non piacere. Sei preoccupato?
«La storia porta a seguire ragioni e torti dei personaggi: io non ho mai fatto fatica a comprendere la loro scelta, anzi. Per me questo è un finale trionfale, quasi lo invidio. È a favore della dignità personale, della libertà che va oltre le polizze assicurative e si ribella alle scelte obbligate».

In futuro pensi che tornerai a lavorare in America?
«Per ora no: a breve inizio le riprese di un nuovo progetto ambientato a Roma, con un cast italianissimo. Poi chissà, il film negli USA è distribuito dalla Sony che ha scelto un’uscita tipica dei film che vogliono andare agli Oscar. Io guardo questa cosa con divertito scetticismo. A me va bene così, il film sarà distribuito in 90 paesi, non pensavo neanche ce ne fossero così tanti!». 

Foto: Getty

© RIPRODUZIONE RISERVATA