Piero Messina: «Ho convinto la Binoche a fare il mio film dopo esserci ubriacati»

L’esordiente Piero Messina, sebbene L’attesa sia la sua opera prima, si è già messo alla prova con una storia intensa e un cast importante

È al suo debutto con un lungometraggio Piero Messina, regista trentunenne che gode dell’endorsement di Paolo Sorrentino da quando vinse il Taormina Film Fest col suo primo cortometraggio a soli 19 anni, ma vanta già una nutrita esperienza nel campo dei corti (sette all’attivo, ben recensiti al Taormina Film Fest, a Rotterdam, a Cannes e a Roma), senza trascurare il suo impegno come aiuto regista sul set di This Must Be the Place e La grande bellezza.

L’entusiasmo nella voce e l’ottimismo sono quelli di un giovane che si accinge a due “debutti” importanti – il suo primo film (che concorre a Venezia 72) e la nascita del secondo figlio (lo intervistiamo al telefono mentre è in coda dal ginecologo) – con responsabilità, ma anche un pizzico di incoscienza. O forse fatalismo, considerate le origine siciliane (Caltagirone) dell’autore, ora trapiantato a Roma, che ha scelto la propria terra natale come ambientazione.

Il trailer di L’attesa è piuttosto misterioso. Per le atmosfere sembrerebbe quasi un thriller/noir. Confermi la nostra sensazione?

«D’accordo con la produzione abbiamo deciso di non raccontare troppo della storia, perché il film ha una sua fragilità che va preservata, ma sostanzialmente tratta di due donne, Anna e Jeanne, ovvero Juliette Binoche e Lou de Laâge (che ho trovato dopo aver provinato le 100 migliori attrici francesi sopra i 20 anni di oggi), che convivono in una villa siciliana in attesa dello stesso uomo, mentre nel paese antistante si sta svolgendo la processione pasquale. In realtà non è un noir, ma lo abbiamo approcciato come un thriller psicologico, rispettando i codici del genere, specie nella scena finale».

È stato difficile convincere la Binoche a partecipare al tuo progetto?

«Ho pensato sin dal principio a Juliette per la parte. Doveva essere una straniera che si trova in una terra a lei sconosciuta, dove però ha deciso di vivere. Il fatto che le due donne abbiano un passato lontano e condividano una lingua diversa le rende ancora più estranee al contesto. Lei ha amato subito la sceneggiatura, ma non avrebbe accettato senza conoscermi, e così sono volato a Parigi col mio francese inesistente e il mio inglese stentato. Un incontro surreale, in cui tutti e due abbiamo bevuto vino senza averne voglia, rendendo la conversazione ancora più surreale. Ma lei era preparatissima: aveva visto i miei corti online ed era già convinta. Ci siamo trovati subito e anche sul set l’intesa era tangibile».

A cosa è dovuta la scelta di mettere in scena una liturgia sacra, i cui partecipanti sono vestiti come i membri del Ku Klux Klan?

«Ogni anno nella Domenica delle Palme, nel centro storico di Caltagirone dove sono nato, si svolge ‘a Giunta, in cui San Pietro incontra Cristo risorto e lo annuncia a Maria. È un rito religioso, ma nello stesso tempo fortemente laico: una donna corre nel centro del paese perché le hanno detto che il figlio morto è risorto. E diecimila persone assistono a quel ricongiungimento. È una rappresentazione pazzesca. Volevo raccontare come la condivisione di qualcosa da parte di migliaia di persone lo faccia diventare reale».

Qual è l’insegnamento più importante che hai appreso da Sorrentino?

«Oltre a dribblare l’ovvio e a essere molto concentrato sul set, sarei presuntuoso se dicessi di aver acquisito un metodo al mio primo film, ma di sicuro da lui ho imparato a porre l’attenzione sulle cose che contano davvero e a tagliare il superfluo».
Com’è stato lavorare fianco a fianco con Sean Penn?

«Uno spettacolo meraviglioso goduto in prima fila. Il fatto di aver condiviso lo stesso set per diversi mesi, forse è servito a liberarmi di certe fascinazioni e a rendermi più tranquillo anche di fronte alla Binoche, senza eccessiva soggezione».

   

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