Cosa succede quando l’estetica raffinata di un giallo alla Cluedo incontra l’efferatezza di un classico slasher? La risposta è Bone Face, un horror indipendente del 2025 che prende tutti gli elementi tipici del whodunit – indizi sparsi, sospettati eccentrici, una location isolata – e li immerge in un bagno di sangue. Il risultato è un film sorprendente, a tratti ironico, ma anche carico di tensione, che dimostra come sia ancora possibile innovare due generi tanto amati quanto ormai spesso stereotipati.
Diretto e scritto da Michael Donovan Horn, Bone Face si presenta inizialmente come un classico slasher: siamo in un campeggio isolato, è notte, e due giovani counselor si imbattono nel cadavere di un collega. Quello che segue è un omaggio dichiarato a Venerdì 13, con un killer mascherato che si muove nell’ombra, pronto a colpire. Ma questo prologo truculento è solo un’esca: la vera anima del film emerge quando la narrazione si sposta in un modesto diner aperto 24 ore su 24, dove un gruppo di personaggi apparentemente scollegati si ritrova bloccato dalla polizia.
Gli agenti Cronin (Jeremy London) e McCully (Elena Sanchez) seguono la scia di sangue fino al locale, dove trovano indizi compromettenti: la maschera dell’assassino e i suoi abiti sporchi gettati in un cassonetto. A quel punto, la situazione cambia completamente registro: Bone Face diventa un gioco psicologico, un’indagine corale dove tutti potrebbero essere colpevoli. E proprio come in Cluedo, ogni personaggio ha un passato torbido, un potenziale movente e un modo diverso di reagire alla tensione crescente.
Nel diner ci sono un fotografo curioso, una socialite snob, due motociclisti taciturni, un operaio apparentemente innocuo e altri ancora: Horn delinea queste personalità con vivacità, regalando loro dialoghi brillanti, dettagli biografici e comportamenti che seminano dubbi e sospetti. Alcuni momenti sembrano usciti da una black comedy, con battute taglienti e reazioni assurde che stemperano la tensione, pur mantenendo alto il senso di pericolo. A rendere il tutto ancora più interessante è la presenza di Ray (Artrial Clark), un personaggio consapevole delle regole del genere, che commenta gli eventi come se fosse parte di un film – un’eco della lezione postmoderna lanciata da Scream.
La forza di Bone Face sta proprio nella sua struttura ibrida: dopo un prologo puramente horror, il film si trasforma in una sorta di “giallo da camera” dal sapore teatrale, dove i personaggi non possono uscire, sono osservati e messi sotto pressione, e lo spettatore è chiamato a giocare in prima persona. Chi è l’assassino? Cosa lo lega alle vittime? Chi mente e chi dice la verità? Il film non offre risposte facili, ma lascia tracce, indizi visivi e frasi ambigue da decifrare.
Horn dimostra di conoscere bene le regole del gioco, e proprio per questo si diverte a sovvertirle. Bone Face non è interessato a seguire pedissequamente i codici dello slasher o quelli del mystery, ma piuttosto a creare qualcosa di nuovo, mescolando elementi di entrambi. In questo senso, si inserisce nel filone recente di film che hanno cercato di rivitalizzare il genere horror attraverso contaminazioni: se Heart Eyes fonde la commedia romantica con il sangue, He Never Left preferisce una deriva crime thriller, mentre Freaky gioca con le dinamiche da Quel pazzo venerdì. Bone Face, dal canto suo, prende spunto da Cluedo e costruisce un’esperienza dove il pubblico diventa parte attiva della narrazione, cercando di mettere insieme i pezzi di un puzzle mortale.
A rendere il tutto ancora più riuscito è la regia di Horn, che sfrutta intelligentemente la location unica del diner: un ambiente angusto e claustrofobico, che diventa teatro di sguardi, sospetti e conflitti. La fotografia cupa e il ritmo serrato aiutano a mantenere alta la tensione, mentre la sceneggiatura punta tutto sui dialoghi e sulle interazioni tra i personaggi, più che sugli effetti speciali o sulle uccisioni spettacolari.
In un panorama horror ormai saturo, dove spesso si assiste a sequel, remake o omaggi privi di reale inventiva, Bone Face spicca sicuramente per originalità e coraggio: è un film che osa, che si prende il rischio di deludere chi cerca un semplice slasher, ma che sa come coinvolgere chi ama il cinema di genere intelligente e imprevedibile. Non sarà per tutti, ma per chi apprezza i giochi mentali, le atmosfere sospese e i ribaltamenti di prospettiva, è un piccolo cult di cui sentiremo parlare in futuro.
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Fonte: Collider
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