I registi Dayton e Faris: «La nostra battaglia dei sessi, più attuale che mai»

I registi di Little Miss Sunshine e Ruby Sparks presentano a Roma il loro film con Emma Stone e Steve Carell: «Parliamo di sessismo, ma anche di quanto fosse difficile essere gay negli anni '70».

Jonathan Dayton e Valerie Faris presentano La battaglia dei sessi

Jonathan Dayton e Valerie Faris sono dei registi di culto del cinema indipendente americano. Conosciutissimi e apprezzati per i loro video musicali, realizzati per artisti del calibro di Jane’s Addiction, Oasis, Red Hot Chili Peppers, R.E.M. e Smashing Pumpkins, hanno diretto due film entrati nel cuore di molti: il classico contemporaneo Little Miss Sunshine, in cui una famiglia sgangherata si era messa in testa di portare una ragazzina a un concorso di bellezza a bordo di un pullmino, e l’altrettanto eccentrica e stralunata love story Ruby Sparks, in cui uno scrittore, interpretato da Paul Dano, vedeva la ragazza del titolo prendere vita direttamente dalla sua penna, nel corpo (e nelle stranezze) di Zoe Kazan.

Con il loro nuovo film, La battaglia dei sessi, Dayton e Faris, che sono una coppia anche nella vita, hanno fatto i conti con una produzione più tradizionale e mainstream, con dalla sua tutte le carta in regola per puntare ai prossimi Oscar: si tratta dell’adattamento cinematografico della celebre partita a tennis, passata alla storia proprio come battle of the sexes, che il 20 settembre 1973 a Houston vide confrontarsi per la prima volta un uomo e una donna, Bobby Riggs (Steve Carell) e Billie Jean King (Emma Stone). O, per citare i media dell’epoca riportati nel film, “un tennista e una femminista”, un “maiale maschilista” (parole sue), scommettitore feroce e fenomeno da baraccone, e una donna che volle farsi portavoce di un’intera generazione attraverso la forza fulminante e sterminata della comunicazione sportiva.

Un match fondamentale per la storia dello sport e del costume, che contrappose il machismo di Riggs al forte senso di rivalsa femminile di Billie Jean. Il tema del sessismo non potrebbe essere più d’attualità in queste ore, dopo lo scandalo che ha travolto il produttore hollywoodiano Harvey Weinstein, ma nel film di Dayton e Faris tutto è risolto con molto candore, anche se non vengono risparmiati gli aspetti più ridicoli e caricaturali del maschilismo dell’epoca, dotato di tante appendici spettacolari e di una costante cornice da supershow.

Tuttavia è inevitabile che ai registi e al produttore tocchi glissare sulla vicenda Weinstein per concentrarsi sulla specificità del loro film, che racconta come lo scontro tra sessi sia soprattutto un duello di prospettive, sia pubbliche che private. «La cosa interessante della storia è stata la sua complessità, i suoi molti elementi in ballo – hanno detto i due registi, dall’aria distesa, e affabile, pacata e riflessiva, arrivati a Roma per presentare il film in uscita nelle sale italiane il 19 Ottobre grazie a 20th Century Fox  la storia personale di Billie Jean, le sue vicissitudini private, il modo in cui il suo matrimonio si stava sviluppando e il fatto che, nonostante le problematiche intime, lei continuasse a combattere per i pari diritti delle donne».

«Volevamo attirare un pubblico il più ampio possibile – continuano Dayton e Faris – non soltanto chi ritiene che sia necessario dare alle donne pari trattamento economico, cosa su cui oggi spesso si discute, anche a proposito della paga di registe donne. Per uno stesso lavoro un uomo prende un dollaro e una donna 79 centesimi. Volevamo risvegliare nelle persone una migliore comprensione delle questioni trattate». L’attenzione ai temi di fondo è così forte che, quando finalmente irrompe il tennis sulla scena, sembra quasi un dettaglio secondario, metafora di uno scontro per più rivelante, da combattere non tanto sull’erba o sulla terra battuta ma nell’agone più grande di tutti: quello della Storia con la s maiuscola. «Bilanciare i vari aspetti è stata la difficoltà maggiore perché volevamo evitare che si trattasse di un semplice film sul tennis. Billie è costretta a vivere in una cultura che reprimeva l’omosessualità. La cultura l’aveva spinta a mantenere questo segreto. Volevamo che fosse anche un film che parlasse del mondo in cui le persone trovavano l’amore. La forma più alta di potere sta nell’esplorazione della sessualità, per quanto ci riguarda».

«Era importante, tuttavia, rappresentare al meglio il gioco del tennis. Siamo appassionati, ma ci siamo comunque avvalsi di un consulente per la regia, il design, il modo di riprendere il match. Abbiamo visionato le partite del periodo ma per quanto fossero bravi Steve ed Emma non avrebbero mai potuto raggiungere la perfezione di quei tennisti. Nel film ci sono delle controfigure, ma anche loro hanno dovuto guardare le partite dell’epoca per riprodurre lo stile di quegli atleti. Il vero allenatore di Riggs ha aiutato Carell a seguire lo stile di Bobby».

Per quanto riguarda gli attori, i registi non hanno però mai avuto nemmeno mezzo dubbio e si concedono anche una battuta su La La Land«Steve ed Emma sono stati fin da subito la nostra prima scelta. Siamo stati molto felici di lavorare con loro: Steve è decisamente un giocatore migliore, ma Emma…è molto più brava a ballare! Riguardo il trattamento del personaggio interpretato da Carell, abbiamo voluto seguire la filosofia di Billie Jean di rispettare il nostro avversario. Oggi viviamo in un mondo estremamente polarizzato, tutti puntano il dito e urlano contro il nemico. Noi dal canto nostro abbiamo voluto onorare l’avversario e non sottovalutare le sue capacità. Dopotutto non va dimenticato che, a seguito di questo incontro, Billie Jean e Bobby sono diventati amici…».

La vera Billie Jean King (Bobby Riggs è morto nel 1995) ha anche partecipato alla lavorazione del film. «Abbiamo coinvolto Billy già nello sviluppo del soggetto e poi durante il montaggio. Ha partecipato al festival di Telluride e alla promozione del film. Ha visto il film in compagnia del pubblico ed è stata davvero incredibile. Molte persone la trattano con enorme simpatia e rispetto in America. Con lei abbiamo parlato anche di cosa volesse dire essere gay nel 1973. Qualcosa di tutt’altro che semplice».

Foto: Getty Images

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