È lui stesso a ricordarlo quasi a ogni intervento pubblico: «Vincere un Oscar è come acquisire un superpotere, e da grandi poteri – si sa – derivano grandi responsabilità». E così, dopo l’exploit di Mediterraneo nel 1992, Gabriele Salvatores ha sempre cercato di spendere la libertà produttiva e il credito di fiducia derivati da quel successo scegliendo progetti fuori dagli schemi e provando a scuotere l’industria cinematografica italiana. In questa prospettiva vanno inquadrati ad esempio film inclassificabili e affascinanti come Nirvana, Denti o Io non ho paura, e sicuramente di questo spirito è ricco Il ragazzo invisibile, primo esperimento di cinecomic all’italiana (anche se molti associano il genere a Lo chiamavano Jeeg Robot, forse per il taglio più adulto), che con questo sequel si trasforma in un franchise, ampliando il respiro della storia, introducendo nuovi personaggi e rendendo i poteri dei protagonisti ancora più distruttivi. Abbiamo incontrato Salvatores a Milano in una mattina di tardo autunno, gelida ma assolata, e abbiamo parlato quasi un’ora ripercorrendo le tracce di un’avventura che tra grande schermo e serie a fumetti ha ormai un lustro di vita.
Tu hai sempre detto, fin dai tempi di Nirvana, che con gli effetti speciali non è necessario esagerare, bisogna fare poco e riempirlo di senso. Però in questo sequel c’è anche quantità, oltre che qualità.
«Ci sono tanti tipi di effetti speciali nel film, quasi 600 effetti a detta del nostro supervisore Victor Perez, ma considera che lui calcola anche quando deve cancellare un binario del tram o un cavo che tiene appeso un attore. Quando invece Roccia, uno degli Speciali, ferma il pulmino a mani nude, quella è una sequenza che è stata girata totalmente in digitale: l’attore, il pulmino… tutto. Io non avevo neanche previsto di fare così, è stato Victor che mi ha spinto a farlo. In generale, abbiamo cercato di usare gli effetti speciali in parte per semplificarci (come quando avevo un un carrello da utilizzare fino alla fine di una scena e lo inquadravo all’inizio senza preoccuparmene perché sapevo di poterlo cancellare in digitale) e in parte legandoli alla storia, nel modo più naturale possibile».
La scena che ha richiesto più lavoro immagino sia stata l’ultima, la resa di conti finale con tutti i personaggi.
«Sì, la scena nella caldaia. A riguardo ti posso fare un esempio di uso del digitale utile anche se poco “visibile”. La location che avevamo scelto aveva dei finestroni a 360°. Siccome quando devi girare magari ci metti quattro ore a fare un’inquadratura, nel frattempo il sole si sposta. Quindi abbiamo digitalizzato l’interno della caldaia ricreandola al computer e realizzato uno storyboard digitale, sapendo per ogni inquadratura a che distanza avrei messo la macchina, dove si sarebbero trovati gli attori e a che ora del giorno avrei potuto girare in una certa direzione per avere la finestra corrispondente illuminata. Considera che in quella scena ce ne sono 240 di inquadrature – alcune molto rapide, ma comunque 240 – e sarebbe stato impossibile realizzarla senza una guida così precisa; è un uso del digitale che ti permette di ottimizzare il risultato e ridurre i costi anche in film dove gli effetti non sono evidenti».
È un modo di lavorare molto all’americana, super organizzato.
«Be’, dipende da cosa intendi. Ad esempio I giorni del cielo di Terrence Malick è girato tutto tra l’alba e il tramonto, con luce naturale, però con un’organizzazione straordinaria: tutti erano sempre pronti nel momento giusto. O hai alle spalle un’organizzazione pazzesca oppure diventa il caos. Il cinema sta cambiando così tanto che questi discorsi sono fondamentali. Si tratta di fare delle scelte: io, per età, formazione e, credo, anche per pensiero, sono più legato a un cinema tradizionale dal punto di vista della tecnica di ripresa».
Mi fai un esempio?
«Una delle cose che non sopporto sono quei tentativi di far diventare il film una specie di videogioco: l’immersione, la realtà virtuale… sono cose totalmente diverse. Ad esempio ieri ho visto Una donna fantastica, un film cileno molto bello: anche in questo caso ci sono degli effetti digitali, ma la fotografia è improntata a un generale squallore, c’è un tentativo di far sembrare naturali il più possibile anche i pochissimi ritocchi. Quindi mi sa che paradossalmente, dopo tutte queste immersioni nella tecnologia, alla fine mi sto radicalizzando su un cinema più analogico».
Per come la vedo io, per sopravvivere il cinema non deve inseguire gli altri linguaggi snaturandosi, ma anzi creare delle esperienze che siano perfettamente “da sala”, e mi viene ad esempio in mente Dunkirk.
«Sono d’accordissimo. È ovvio che ti scontri con una tendenza opposta, però l’unica cosa che noi possiamo fare è tenere duro con questo approccio, perché il pubblico farà il giro ma vedrai che alla fine torna. Il cinema prevede una passività fuori moda ma meravigliosa: si tratta di entrare nel sogno di un altro, poi può accadere che non piaccia, che si pensi di aver buttato via due ore, ma anche questa è una scelta. Tutto il resto è dominio della televisione e in particolare dei videogiochi, che stanno diventando una cosa paracinematografica. Ho visto delle cose impressionanti: ad esempio Call of Duty è pazzesco… Ma l’anima del cinema è passiva ed è anche autoritaria, perché è il regista a scegliere cosa farti vedere».
Torniamo al film e veniamo alla scrittura, un altro aspetto che mi interessava approfondire. Il primo Ragazzo invisibile aveva una sua coerenza di tono, era adatto alle famiglie e ai ragazzini più giovani, mentre il fumetto che lo completava era più dark. Adesso la parte dark del fumetto è entrata nel film, con parti decisamente più adulte, come quella del “lager” degli Speciali.
«Il target del film non è facilissimo da individuare, non è così chiaro. Certamente spero che i ragazzi vadano a vederlo, magari anche i più giovani, ma il film è cambiato molto in corso d’opera, ci sono state tante riscritture, anche in fase di ripresa e di montaggio. Sono entrate molte cose personali di chi ha scritto la sceneggiatura, anche mie, e queste sono ovviamente cose da adulti. Quindi c’è un po’ sfuggito di mano il controllo del target del pubblico, ma non certo l’obiettivo del film, e di questo sono contento».
La storia mi ha ricordato sia gli X-Men, per il destino di questi Speciali, sia Star Wars, per le dinamiche familiari.
«Be’, perché no. Ad essere sincero Star Wars mi è piaciuto tantissimo, il primo e anche il secondo film, poi pian piano mi sono perso gli altri, mentre gli X-Men li conosco poco, me li sono andati a recuperare prima di girare, ma sono riferimenti molto precisi degli sceneggiatori Alessandro Fabbri e Stefano Sardo. La cosa su cui però mi sono concentrato di più e che amo maggiormente è il rapporto tra i due fratelli, il poter mostrare in maniera fantastica, non realistica, sentimenti e rabbie, cose che potresti raccontare in modo diversissimo usando un altro sistema narrativo e altri riferimenti visivi».
Riguardo il tuo giovane protagonista, Ludovico Girardello, come è cambiato il vostro rapporto tra il primo e il secondo film?
«Tantissimo, perché prima ero una specie di zio che arriva e lo fa giocare – lui non aveva nessuna esperienza di set –, dovevo “tirargli fuori” le cose. Mi era già successo con Io non ho paura, e Come Dio comanda: il modo giusto non è dire “devi fare così” e farglielo vedere, ma sapere cosa dovrebbe fare e cercare dentro di lui qualcosa di simile. Ludovico è stato scelto più sulla base della sua psicologia, che sulla capacità reale di recitare. Poi in questi 3 anni ha continuato a fare teatro e ha fatto alcune cose di cinema, ha preso più coscienza. Questa volta quindi mi sono trovato di fronte a un giovane attore, ancora in erba ma più capace di controllare la sua recitazione. Quindi da zio sono passato a fare il regista vero e proprio e a parlargli di cose un po’ più profonde. Molti dicono che il film è più oscuro: ecco, lui mi ha detto «Il primo film è stato un allenamento, il prologo: il vero film è questo. È la prima volta che mi vedo e non mi faccio schifo».
Un’ultima cosa. Il numero di gennaio è dedicato anche alle classifiche con il meglio del 2017: come appassionato quali sono le cose più belle, quelle che ti sono rimaste maggiormente dentro, che hai visto quest’anno, siano film, serie tv, libri o videogiochi?
«Dunkirk di Nolan e i libri di Kent Haruf. Riguardo alle serie Tv, anche se non ne sono particolarmente appassionato, mi è piaciuta l’ultima stagione di Fargo e quella di Il trono di spade. Ma anche Stranger Things, che è molto legata al mio immaginario… Spielberg, gli anni ’80».
L’intervista è pubblicata sul numero di gennaio di Best Movie, in edicola dal 28 dicembre
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