Sicario: Roberto Recchioni e l’attenzione ai dettagli di Denis Villenueve

Parte da questo mese A scena aperta, la rubrica in cui il fumettista e romanziere, oltre che curatore di Dylan Dog per la Sergio Bonelli, svela i segreti delle scene più belle dei film disponibili in home video. Si comincia con il thriller del regista di Prisoners

Da febbraio 2016, Roberto Recchioni (fumettista e romanziere, oltre che curatore di Dylan Dog per la Sergio Bonelli Editore) firma su Best Movie A scena aperta, rubrica in cui svela i segreti delle scene più belle dei film disponibili in home video.

Se c’è un regista di cui si deve parlare bene per dare l’idea che se ne capisce di cinema, è Denis Villeneuve. Volete darvi un tono a una cena insieme ad aspiranti cineasti e critici da web? Fate qualche osservazione sull’eleganza delle sue riprese, o sul rigore della sua forma e vedrete che tutti condivideranno la vostra opinione e vi faranno gran complimenti per l’acume del vostro occhio. Perché Villeneuve è bravo ma è bravo in una maniera così apparentemente discreta da far sentire intelligente l’appassionato di cinema che la sa cogliere.

Prendete il caso di Sicario. È un bel film, con un soggetto molto semplice raccontato in maniera sofisticata ma anche molto sobria. Visto che tutta la pellicola è un’insieme di sequenze raccontate alla perfezione, prendiamone come esempio una quasi trascurabile. Del resto, non si dice forse che il diavolo è nei dettagli? Siamo a un terzo della pellicola. Il personaggio di Josh Brolin è inquadrato frontalmente, a figura intera, mentre cammina verso di noi nel corridoio di una base militare (immagine 1 e 2 della gallery in fondo all’articolo). Di quinta a sinistra vediamo un soldato in piano americano, nell’ombra, a guardia di una porta. Sul fondo, alle spalle di Brolin, un secondo soldato.

Nella parte destra una serie di porte, a bilanciare i pesi dell’inquadratura. Tutto è virato nei colori del verdino e dell’ocra. Se anche non ci fossero i soldati a dirci che siamo in una base militare, il colore della sequenza basterebbe. Brolin arriva verso di noi fino al primo piano, la camera lo segue sopra la spalla mentre apre (immagine 3). Nel nero della zona in ombra dell’inquadratura si apre un rettangolo di luce verticale (ocra pure questa). Un uomo su di una sedia, legato mani e piedi, e un secondo uomo alle sue spalle, in piedi, che gli versa dell’acqua in bocca. Controcampo. Andiamo sul fondo della stanza. L’uomo seduto è in primissimo piano, in quinta a sinistra, di spalle, ovviamente. L’uomo che gli versa da bere è nella parte destra dell’inquadratura con il braccio teso verso sinistra per versare l’acqua. Il prigioniero, il braccio, e l’uomo compongono un quadrato perfetto al cui centro è iscritta la porta da cui sta entrando Brolin (immagine 4). Brolin entra, si chiude la porta alle spalle e ci si appoggia. Guardando dritto verso di noi. Sorridendo come un figlio di puttana (immagine 5). Lui è il centro della scena. Il motore immobile che anima tutta la tensione e che, in ultima analisi, muove il film nella sua interezza.

Questa breve sequenza è formalmente inappuntabile in termine di linguaggio perché in pochissimi secondi ci racconta ambiente, situazione e rapporti dei personaggi senza usare nemmeno una parola. E ogni momento di Sicario è sostanzialmente uguale in termini di densità e consapevolezza. Il linguaggio visivo è fortemente debitore di Micheal Mann (in particolare di quello di Heat – La sfida e della versione cinematografica di Miami Vice) e del William Friedkin di Vivere e morire a Los Angeles; la fotografia “artificialmente naturale” esalta la nitidezza dell’immagine in alta risoluzione, il sound design è attento a catturare tanto il rumore del vento quanto il “click” dell’otturatore di una pistola, i campi lunghi e lunghissimi danno pieno risalto ai magnifici scenari naturali e luci artificiali che gli si contrappongono. In poche parole, una forma splendida che definisce il contenuto. Anzi, che È il contenuto. Ma rispetto a Mann e a Friedkin, nel cinema del regista canadese non c’è mai quell’attimo di follia, quell’angolo di ripresa imprevisto, quell’eccesso estetico che sfocia, qualche volta, nella pacchianeria e nel cattivo gusto. Nello “sbaglio.” In ambito di moda maschile, lo sbaglio è quel dettaglio fuori posto che rende unico lo stile di un gentleman, come il papillon di Churchill (uomo di incontestabile eleganza) portato in qualsiasi occasione, anche a sproposito. Ecco, lo sbaglio è quel qualcosa che si possono permettere solo quelli che i dettami dell’eleganza li hanno fatti propri, al punto di renderli una parte integrante di sé. Villeneuve, invece, è talmente consapevole (e in parte compiaciuto) del suo senso della misura, da attenercisi rigidamente, senza concedersi (e concederci) nessuna sbavatura di colore o calore. Un bellissimo cinema. Ma si deve ancora sciogliere.

 

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