«Non si viene a Sin City per leggere la Bibbia». No, nella città del peccato non c’è posto per il Testo Sacro. Semplicemente perché il paradiso, qui, non è di casa. Miller ha creato un mondo maledetto, fatto di vizi, corruzione e antieroi leggendari, che nel 2006 Robert Rodriguez è riuscito nell’impresa – perché tale era – di portare in vita sul grande schermo, rispettando fedelmente le tavole originali, già cinematografiche per natura. Il risultato fu uno spettacolo inedito per il mondo dei cinecomic e per la settima arte in generale, perché per la prima volta i codici linguistici di un fumetto venivano trapiantati (e non semplicemente adattati) in un altro medium, il film. Cosa inventarsi di più, dunque, per stupire il pubblico con il sequel?
Questa l’idea di Rodriguez e Miller: a una storia principale, basata sul volume Una donna per cui uccidere (prequel di Un’abbuffata di morte, l’episodio che nel film del 2005 aveva Clive Owen protagonista), affiancarne due inedite, scritte appositamente per il cinema. La struttura è la stessa del primo capitolo, divisa in episodi sapientemente intrecciati tra loro. Si parte con un prologo tratto dal racconto breve Un sabato notte come tanti (contenuto nel volume Alcol, pupe & pallottole) che vede Marv (Mickey Rourke), vero mattatore del film e collegamento tra storie e personaggi, risvegliarsi in mezzo alla strada, senza sapere né come né perché sia finito lì. La ricostruzione dei fatti precedenti è un concentrato di sangue e pugni, che ci catapulta fino ai titoli di testa, dove i protagonisti sono presentati nella loro forma fumettistica, esaltata al massimo dal 3D.
Il cuore del sequel è, come detto, la vicenda di Dwight McCarthy e Ava Lord (che in italiano diventa inspiegabilmente Eva Lord). Dal punto di vista stilistico, non ci sono differenze con quanto già visto nel 2005: il contrasto tra bianco e nero è accecante e segue traiettorie del cinema espressionista (Fritz Lang su tutti), il montaggio rispetta pause e accelerazioni della voice off e i dialoghi sono pari pari a quelli del fumetto. Le new entry, in questo caso, sono Josh Brolin ed Eva Green: entrambi perfetti, per fisicità molto vicini ai modelli originali, riescono a rappresentare al meglio le tante sfaccettature di Dwight e Ava. A emergere su tutti, però, è Eva Green, femme fatale incandescente come non se ne vedevano da tempo: la sua è una bellezza ipnotica e avvelenata, simbolo del serpente che si nasconde sotto la rosa, pronto a mordere. Un predatore dagli occhi verdi di stampo anche classico (per potere seduttivo ricorda la straordinaria Barbara Stanwick di La fiamma del peccato), che manipola ogni uomo a piacimento. Il ruolo calza come un guanto sul corpo sinuoso dell’attrice, che i due registi non esitano a mostrare in tutte le sue forme: scelta giusta, in quanto è la vera arma di Ava, e mai volgare, perché avvolta dal fascino delle luci e ombre del noir.
L’episodio è fluido e scorre liscio come un bicchiere di wiskhey del Kadie’s Bar. Ma una volta concluso, le note dell’orchestra cominciano a stridere proprio sullo spartito delle due vere novità: Quella lunga, brutta notte e L’ultimo ballo di Nancy. La prima storia ha protagonista Joseph Gordon-Levitt nei panni di un giocatore d’azzardo che sfida e batte a una partita di poker l’uomo sbagliato, nonché più potente di Sin City: il senatore Rourke. La seconda è il proseguimento diretto dell’episodio Quel bastardo giallo raccontato nel film d’esordio, con Nancy (Jessica Alba) ancora sconvolta dalla morte di Hartigan (Bruce Willis). Entrambe fanno leva su temi di fondo dell’intera saga – l’oppressione del potere contro una disperata difesa individuale, la vendetta – ma stonano nella visione d’insieme del sequel, che manca dell’unità estetica e narrativa del primo capitolo. La scrittura è sin troppo lineare nello schema inizio-svolgimento-epilogo – non basta il cameo di Christopher Lloyd, autentica chicca – e persino le risonanze fumettistiche diminuiscono. Improvvisamente si assiste a un cambiamento di linguaggio: non è più il cinema che si fa fumetto, ma è il fumetto che si adatta al cinema. Rischio forse calcolato, ma che in futuro, visto che già si pensa a un terzo capitolo, sarebbe meglio non ripetere: Sin City al cinema non può prescindere dall’opera di Miller, perché non appena si allontana dalla terra d’origine, perde la sua anima: nera come la notte.
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