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Suicide Squad e la fiera delle attese impossibili: una recensione pre-film

Di cosa parliamo quando parliamo, oggi, di blockbuster? Perché le recensioni del film spaventano così tanto i fan? Qualche riflessione in attesa di vedere il film di David Ayer

Suicide Squad e la fiera delle attese impossibili: una recensione pre-film

Di cosa parliamo quando parliamo, oggi, di blockbuster? Perché le recensioni del film spaventano così tanto i fan? Qualche riflessione in attesa di vedere il film di David Ayer

Scrivo questo articolo prima di vedere Suicide Squad, ma dopo aver letto delle pessime recensioni che il film ha suscitato nella stampa americana e delle successive reazioni stizzite dei fan, per chiarire le idee prima di tutto a me stesso.

Il gioco delle stroncature e delle attese frustrate si ripete ormai prima di ogni tentpole (da Star Wars a 007, passando per i film Marvel, seppur con diversi livelli di intensità), un termine con il quale è bene familiarizzare e che è diverso dalla vecchia concezione di blockbuster. Oggi le Major americane come Warner, Disney e Fox producono in prima approssimazione tre tipi di film: tentpole, blockbuster (ma sarebbe più corretto parlare semplicemente di film ad alto budget, ponendo come soglia minima i 100 milioni di dollari) e film a medio o basso budget, spesso co-prodotti con società satellite. *

Il concetto di tentpole è legato a quello di franchise, ad essere chiamato in causa non è cioè un singolo film, ma una saga o un universo narrativo (per esempio quello mutuato dai fumetti della DC), in pratica un immaginario. I tentpole equivalgono a delle grosse aziende: l’indotto di ogni film di un franchise di successo – tra biglietti staccati, partnership commerciali con aziende di altri settori e merchandise – supera ampiamente il miliardo di dollari. Dall’andamento economico dei tentpole dipende il rendimento e in definitiva la sopravvivenza delle Major.

I blockbuster possono aspirare a diventare franchise (anzi, potenzialmente aspirano tutti ad arrivare lì), ma c’è naturalmente il margine di incognita chiamato pubblico, e con un mercato globalizzato di mezzo le variabili culturali son molte di più. Capita per esempio che si decida di insistere su una saga dopo il primo episodio, nonostante un certo margine di perdita, sia perché evidentemente le spese di marketing per lanciare un brand sono molto maggiori di quelle che servono per i capitoli successivi – si tratta cioè di un investimento che va via via ammortizzato (è la ragione per cui probabilmente vedremo un World War Z 2) -, sia perché quel film ha ricevuto risposte positive sul mercato orientale, e cinese in particolare, nonostante la freddezza di quello americano (Pacific Rim è un caso tipico).

Tornando alla questione principale, ecco che una delle ragioni per cui oggi i reboot/remake sono mal sopportati da una parte dei loro fandom, e molto più di un tempo, è la percezione più o meno consapevole che film nati come progetti d’autore, seppur all’interno di un contesto industriale, stiano subendo questa trasformazione in film-aziende, il che corrisponde a un processo di depersonalizzazione: mi sembra ad esempio il caso di Ghostbusters, anche se l’esempio più eclatante è quello di Star Wars. Sia cioè dovuto al passaggio ormai consumato dallo studio system, al brand system (lo star system è morto da un pezzo pure lui, con rare eccezioni), di cui la Disney, con le acquisizioni di Marvel e Pixar, è stata precorritrice – ed è la ragione per cui oggi è ancora ampiamente leader di mercato.

Ora, nel contesto di un tentpole, tutti gli autori, veri o presunti, diventano semplici shooter, cioè tecnici al servizio dell’azienda che li assume e li paga profumatamente, obbligati a rispondere alla visione di altri, una visione che ha ben poco di artistico e risponde invece a leggi e studi di mercato. Ed è la ragione per cui quando vado a vedere un film Marvel o DC, ma anche Star Wars o 007, il massimo a cui ambisco è di rintracciare frammenti di personalità autoriale all’interno di un contesto omologato, una cosa che finora è riuscita benissimo soprattutto a Jon Favreau con Iron Man, Nolan con Batman, Raimi con Spider-Man, Mendes con Bond (il primo) e James Gunn con i Guardiani della Galassia. Il peso complessivo e il valore specifico di questi frammenti, mi sembra il primo parametro di giudizio sensato di film di questo genere. Per Suicide Squad si tratterà di capire quanto del talento di Davide Ayer per il war movie (vedi Fury) è sopravvissuto ed è visibile.

Ciò che poi distingue un tentpole dagli altri della stessa categoria sono ovviamente le sue coordinate narrative, ovvero i personaggi, il mondo in cui vivono, le regole che quel mondo segue. Questo è il vero patrimonio, la ragione per cui si spendono milioni e milioni per acquisire i diritti di certe testate o di certi libri: le fondamenta di un mondo, e soprattutto coloro che lo abitano.

Il problema è che spesso questo patrimonio è sfruttato solo nel primo atto dei film, per il cosiddetto set-up, la presentazione del contesto. Un primo atto che viene saccheggiato dai trailer e dalle clip di lancio. Poi, in sala, ecco il solito carrozzone, con un secondo atto confuso e pieno di incongruenze, e il classico terzo atto in cui (parlando di cinecomic) l’eroe – o gli eroi – devono fronteggiare una minaccia aliena in un contesto urbano, un cliché così logoro che ci hanno costruito sopra un’intera serie-parodia (Powerless), e rispetto al quale inventarsi qualcosa di nuovo pare impossibile.

Anche in questo caso, la Marvel con Civil War ha per la prima volta sparigliato le carte, con un climax finale che è una “semplice” scazzottata tra due personaggi, magnificamente coreografata.

E arriviamo al secondo parametro: quanto a lungo e come si lavora sulle peculiarità dell’universo chiamato in causa, su cui – nel caso di Suicide Squad – si è così ben lavorato in sede di production design e comunicazione del film?

A breve la sentenza.

*è interessante che siano proprio questi ultimi, oggi, a suscitare le maggiori passioni nei cinefili, ovvero nel pubblico non occasionale: i grandi fantasy degli anni ’80 basati su idee originali, ovvero i blockbuster di quella decade, oggi sono film da festival a medio budget, come l’Arrival di Denis Villeneuve atteso a Venezia (è un film Sony), o il Midnight Special di Jeff Nichols passato a Berlino (Warner).

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