The Interview: solo un caso mediatico o anche un buon film? Il nostro verdetto

Abbiamo visto il film che ha (quasi?) scatenato una crisi politica internazionale tra Stati Uniti e Corea del Nord. E...

Tutto quello che ha preceduto la messa online di The Interview da parte di Sony – ovvero il terrorismo informatico prima, e le minacce di terrorismo bombarolo poi – ha trasformato la solita commedia demenziale della ditta Rogen/Franco (ripassarsi Strafumati e Facciamola finita, e più in generale tutto il cinema del Frat Pack) in una questione politica e di costume da TG delle otto di sera, con una conseguenza facilmente pronosticabile: chiunque si è sentito chiamato ad esprimere un’opinione articolata su un tipo di cinema che, per quanto pop, richiede paradossalmente una certa preparazione per essere digerito e distinto dalle farse conservatrici di casa nostra, a differenza delle quali, nonostante un paragonabile livello di scurrilità in certi passaggi, è basato sempre sulla volontà di sperimentare in termini di forma comica e contenuto politico.

D’altra parte non è giusto nemmeno avvicinarsi al film dando per scontato il caos che ha generato, come fosse un valore aggiunto o sottratto. Che si sia trattato di una colossale operazione di marketing come sostengono i complottisti (ma il film ha fatto appena 18 milioni finora, tra online e sala, contro i 40 e oltre di budget: non sembrerebbe quindi un grande affare), o di un vero caso politico internazionale, l’idea di Rogen di ridicolizzare in un lavoro finanziato da una Major, cioè ad alto budget e (soprattutto) alta visibilità globale, una delle dittature con meno senso dell’umorismo del pianeta, ha evidentemente centrato il bersaglio. Certo, per scoprire con leggerezza le follie da fantascienza distopica cui sono sottoposti i cittadini nordcoreani il modo migliore resta leggere la graphic novel Pyongyang di Guy Delisle, così come il posto più soddisfacente in cui cercare fiction politicamente devastante resta South Park (i cui creatori avevano infilato il dittatore nordcoreano, padre di quello attuale, in Team America già nel 2004), ma il discorso artistico che Seth Rogen (qui autore della storia e co-regista) porta avanti ha una sua dimensione popolare non scontata – non stiamo parlando di Ben Stiller o Adam Sandler – che ha trovato con The Interview il suo coronamento.

I suoi film continuano in conclusione a migliorare e questo, nel satireggiare l’informazione occidentale, prendendo al contempo per i fondelli un regime totalitario di serietà spaventevole, perfeziona ancora un linguaggio comico fatto di controsensi e neologismi, destrutturazione di senso / parodia delle mitologie contemporanee e dinamiche attoriali in cui protagonista e spalla si parlano usando registri diversi (Franco è stilizzatissimo, praticamente una macchietta, mentre Rogen è credibile perfino quando si infila una capsula grande come una papaya nel sedere). È anche, tra i suoi film, uno di quelli con la confezione più professionale, la trama più lineare, il messaggio più chiaro e le gag più studiate. Un gran bel risultato che, finora, pare generalmente sottostimato non per deficit intrinseco, ma per paragone al casino che si porta appresso.

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