The Lost Daughter

Ci sono film che nella loro perfezione formale ti stordiscono ma ti lasciano indifferente. Ci sono altri film che, seppure con qualche ingenuità e imperfezione, aprono squarci e creano ponti emotivi che traghettano lo spettatore verso territori inesplorati. Questo è il caso di The Lost Daughter, esordio alla regia di Maggie Gyllenhaal, già attrice raffinata e ora anche regista dotata di sensibilità, presentato in Concorso a Venezia. Un film che mi ha scossa, emozionata e fatto riflettere. Un film che ha preso il romanzo da cui è tratto – La figlia oscura della nostra autrice più misteriosa e più conosciuta all’estero, Elena Ferrante – lo ha in parte tradito, ma ne ha colto l’essenza. La protagonista, Leda (un’immensa Olivia Colman), è una docente di letteratura comparata di origini italiane. La troviamo in vacanza in Grecia, da sola. Diversamente dal romanzo – che invece è interamente ambientato in Italia sulla costa ionica –, non sapremo mai perché si trova in quella spiaggia. Ma è un dettaglio che poco importa. Quello che conta è il tema enorme e difficilissimo che mette in scena: l’ambivalenza della maternità. Attraverso l’incontro con una famiglia rumorosa e numerosa in spiaggia (nel romanzo è una famiglia napoletana, nel film sono del Queens) riaffiorano in Leda ricordi dal passato che diventano più vividi e dolorosi attraverso l’incontro con Nina (Dakota Johnson), una giovane madre con la quale sente una profonda connessione. Leda ha due figlie ormai grandi e nel corso del film, in un continuo passaggio tra passato e presente, vengono messi in scena i lati più oscuri di quello che viene santificato come “il mestiere più bello del mondo” con verità e coraggio.

“I am an unnatural mother” dice ad un certo punto Olivia Colman a Dakota Johnson in uno dei confronti più serrati della pellicola diretta da Maggie Gyllenhaal. Unnatural. Innaturale. Non snaturata, non cattiva, non sbagliata. Ma una donna che ammette che essere madre non solo non è sempre facile, ma non è detto che venga “naturale”. Sul solco del giusto e dello sbagliato, dell’essere una “brava madre” o una “cattiva madre”, si muove un film che scava in maniera sinuosa nell’intimità di una donna che fa i conti con se stessa. Che ruba una bambola seguendo un istinto irrazionale, quello stesso istinto, insondabile e inspiegabile, che lega un genitore ai propri figli e che chiamano “amore incondizionato”, ma che può trasformarsi in odio e in rabbia quando una donna giovane vede la sua vita e le sue ambizioni messe da parte. Nel film, come nel romanzo, non si nascondono i tradimenti, i fallimenti, gli errori. Gli atti di egoismo che portano Leda ad ammettere nel romanzo, nel momento in cui si troverà a comprendere le ragioni di un gesto – che qui non vi svelo, compiuto molti anni prima e che ha creato una frattura nel rapporto tra lei e le figlie – “Le amavo troppo e mi pareva che l’amore per loro mi impedisse di diventare me stessa”.

Il romanzo della Ferrante ha un impianto che procede a ritroso a partire da un incidente d’auto e svela come un noir l’oscurità del sentimento materno. Nel film l’incidente è nel finale e fa perdere di vista la bella intuizione narrativa dell’autrice. Però la Gyllenhaal è stata brava a non edulcorare né cedere a sentimentalismi, buttando con onestà sul grande schermo quello che nessuno dice: essere madre non è per tutti il salvacondotto naturale verso la felicità. Non sono solo i sorrisi e gli hashtag che vediamo sui social. È una questione molto più complicata.

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