Quella del Professore (Valerio Mastandrea), scienziato napoletano rimasto vedovo e isolato in una casa mobile nel deserto del Nevada, accanto all’Area 51, è un’esistenza solitaria e votata alla scienza: dovrebbe lavorare a un progetto segreto per il governo degli Stati Uniti, ma in realtà passa le sue giornate su un divano da ascoltare il suono dello Spazio. La grigia routine dell’uomo verrà però spazzata via dall’arrivo dei nipoti Anita (Chiara Stella Riccio) e Tito (Luca Esposito), rispettivamente sedici e otto anni, che il fratello Fidel (Gianfelice Imparato) gli ha affidato prima di morire.
Tito e gli alieni, in uscita nelle sale il 7 giugno in più di cento copie grazie a Lucky Red, è davvero un ufo nel panorama cinematografico italiano: ultimamente si tende a dirlo spesso, per marcare film difficilmente catalogabili e dare loro patenti di diversità spesso generose, ma in questo caso la definizione è l’unica possibile per un esperimento di fantascienza artigianale e commovente, vintage ma mai passatista o ottusamente nostalgico, che usa la sci-fi per sondare lo spazio profondo. Alla ricerca struggente dei punti d’incontro e delle vie di fuga possibili tra vita e morte, tra affetto e memoria.
Il tutto, però, col tocco profondo e leggerissimo della fiaba, con un passo che è insieme creativo ed esplorativo. Nel corso di un’affollata conferenza stampa romana hanno raccontato il progetto la regista Paola Randi, gli attori (mancava solo la francese Clémence Poésy, che i fan di Harry Potter ricorderanno nei panni di Fleur Delacour) e i produttori Angelo e Matilde Barbagallo. A indossare gli incredibili panni del mattatore il piccolissimo Luca Esposito, che ha fatto presentazioni e onori di casa in autonomia e ha rubato a più riprese la scena con la sua giovanissima ironia partenopea.
Ecco quanto dichiarato da ciascuno dei presenti.
Paola Randi
La genesi del film
«Il film nasce da un’esperienza personale. Come tutti, ho subito delle perdite importanti. Parte tutto da un’immagine, in fondo: un giorno ho trovato mio padre, uomo di straordinarie risorse, memoria e fantasia, a fissare per ore un ritratto di mia madre, scomparsa dieci anni prima, appeso al muro. Stava cercando di conservarne il ricordo. Da lì mi è apparsa in testa l’immagine di un uomo, solo nel deserto, con delle cuffie alle orecchie, seduto accanto ad un’antenna puntata verso il cielo, in cerca della voce di sua moglie. Mi sono dunque chiesta come si poteva sopravvivere al rumore della perdita. In famiglia siamo emigrati tutti, la perdita ci appartiene, forse: mia sorella è una scienziata a Londra, studia la comunicazione tra le cellule e stampa i vasi sanguigni comunicanti in 3D, fa delle cose incredibili».
Il casting e le location
«Per trovare Tito abbiamo visto più di 800 bambini, mentre Chiara Stella era tra le prime giovani attrici che avevamo selezionato. Gli effetti digitali e la post-produzione del film hanno richiesto tantissimo tempo e paradossalmente le riprese sono state la cosa più breve. La location è la stessa di Lost in La Mancha di Terry Gilliam, tanto che abbiamo avuto pure noi le alluvioni! Sia in Spagna, nel villaggio di Almeria dove avevamo il set e dove Leone ha girato C’era una volta il West, sia negli Stati Uniti. Gli USA sono un’utopia recente che appartiene a tutti, il paese più rappresentato in assoluto al cinema. Il deserto, poi, è stato un luogo di sperimentazione visiva, tecnologica, abitativa, una sorta di Luna di Astolfo dell’Orlando Furioso cui l’umanità tende: una terra desolata dove c’è tutto quello che abbiamo perduto».
La malinconia “vintage” della tecnologia
«Sono un’appassionata di Guerre stellari, quand’è uscito sono andata a vederlo che sapevo già tutto, amo anche Carlo Rambaldi, un pioniere degli effetti speciali. Nel film parliamo di ricordi evocati più che rappresentativi in toto, come dei totem che il professore si costruisce da solo. Linda, l’intelligenza artificiale, come tutti gli altri oggetti del film è stata creata con tecnica mista, un po’ ripresa dal vivo e fatta a mano e un po’ ricreata digitalmente. Con umiltà, fatta in casa, ma anche con amore. La scena in cui Valerio balla col robot, piena di leggerezza, è degna di Fred Astaire per come l’abbiamo girata!».
La Stella di Clémence Poésy
«Il suo personaggio organizza matrimoni per turisti a caccia di alieni, è una ragazza dolce e stralunata, materna a suo modo. Non era per niente facile trovare un’attrice adatta a ruolo ma lei si è rivelata fin da subito molto azzeccata: le ho parlato via Skype e mi ha letteralmente conquistato, perché è delicata, intelligente e un po’ matta. Insomma, la ragazza giusta per star dietro a questa carovana…».
Valerio Mastandrea
La lettura del copione
«Io ho fatto il primo corto di Paola Randi, Giulietta nella spazzatura, che è durato un solo giorno di riprese ma andrebbe moltiplicato per sette, come le vite dei cani. Anche quel progetto, quando lo lessi, aveva proprio come questo film qualcosa di artisticamente molto forte, che usciva dai canoni del senso del cinema propriamente detto. Tito e gli alieni, quando lessi la sceneggiatura, mi colpì al di là del genere usato, tanto che non mi interessa nemmeno sapere se è fantasy o no».
Un viaggio interminabile
«A film fatto posso dire che la prima sensazione che ho avuto è stata confermata vedendo il film finito, nonostante la lavorazione sia stata molto lunga e complessa: io avevo 18 anni quando il film è partito e Luca sei mesi! Paola non è solo una regista ma un’artista pura e con questa definizione si porta dietro le cose meravigliose e le cose difficilissime da carpire dalle sue creazioni, che tenta sempre di comunicarti. Almeria, dove abbiamo girato, è uno dei posti più ventosi d’Europa!».
Il suo “Professore”
«Il mio professore, indubbiamente anche un precario visto che il suo progetto scientifico sta per essere cancellato, è un uomo che mantiene vivo il ricordo di una persona che non ha più in maniera totalmente acritica, tanto che il senso della perdita gli impedisce di vivere il presente e di concentrarsi sul futuro in una nuova e più positiva maniera. Dorme, ma viene svegliato da due mosche. Prova immediatamente a scacciarle e invece capisce che anche le mosche sono importanti, anzi primarie: lo tengono sveglio. Le persone molto pure e molto sane sono i veri marziani per me. Mentre le frasi come “sono tra di noi, ci osservano” mi fanno venire l’ansia e non le affronto mai».
Luca Esposito
«Quando ho capito la trama, che era molto difficile, sono rimasto molto colpito! Ogni giorno quando provavamo chiedevo quale fosse il finale e quando l’ho saputo ho capito cosa avevamo fatto davvero. Chi si immaginava poi di passare dalle stalle alle stelle e arrivare a Las Vegas dalla mia Scampia! Solo adesso posso dire di aver fatto qualcosa di grande».
Chiara Stella Riccio
«La mia esperienza è partita come un gioco, davvero per caso, ma consiglierei a tutti di fare un percorso del genere se se ne ha la possibilità. I produttori, Matilde e Angelo Barbagallo, ci sono stati molto vicini e Paola è speciale, va sempre oltre, anche come persona. Avere accanto Valerio, che è un grande attore, è stato meraviglioso».
Angelo Barbagallo
«Per tutti noi è una giornata importante, perché questo è un film a cui teniamo moltissimo. Per farlo ci sono voluti tanto impegno e tanta dedizione, ma il risultato ci ha appagato completamente. Siamo tutti molto fieri del nostro contributo al film di Paola, che dopo Into Paradiso si conferma un talento del nostro cinema. Questo film va nella direzione della costruzione di un nuovo rapporto con il pubblico, visto che dei generi cinematografici che fino a poco tempo fa davano certezze ora non lo fanno più. Abbiamo tutti dei problemi nel definire Paola e questa è la sua unicità. Ha costretto Valerio a fare il film e tutto ha preso concretezza nel momento in cui Valerio ha accettato».
Matilde Barbagallo
«La prima volta che ho letto il soggetto era il 2012 e mi ha colpito moltissimo perché è il tipo di cinema che a me piace andare a vedere. Trovare un modo per raccontare questa storia senza fare il verso al cinema americano sarebbe stato impossibile senza Paola».
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