Venezia 2015, Scamarcio padre abbandonato in La prima luce. La recensione

Il film di Vincenzo Marra è stato presentato durante le Giornate degli Autori

C’è un modello produttivo nel cinema italiano d’autore, che sembra difficile da smantellare e superare quanto quello delle farse regionali: storie intimiste girate tra la cucina e il soggiorno, con qualche scena costiera per far contente le Film Commission e una protagonista esotica per dare un tocco di internazionalità e allargare i mercati.

Ora, attaccare un’idea di cinema prima di averne discusso l’esito, non ha mai molto senso, e La prima luce è un film piccolo e composto, che tenta di raccontare una disgregazione familiare senza eccedere in melodrammi e scene madri, inquadrando un problema serio come la tutela dei minori nei casi di separazioni transnazionali. Storia di Marco, avvocato in carriera che vive a Bari con Martina (Cecilia Ramìrez), la compagna cilena, e Mateo, il figlio di sette anni. Ancora per poco, perché lei galleggia sul filo della depressione e ha deciso di tornare oltreoceano dalla madre. E così fa, portandosi via il bambino, quando Marco è lontano per lavoro. Da lì inizia un’odissea burocratica e giudiziaria per riavere il piccolo a casa, in Italia.

Il problema è però in un deficit di scrittura che, anche con tutta la buona volontà, è impossibile non vedere. Le coordinate del film sono poche, Marco è un professionista dalle maniere spicce di cui incontriamo un unico cliente; Martina non regge il clima di recessione e sfiducia sociale, e non fa che lamentarsi per la nostalgia di casa. Mateo invece dove lo metti sta, parla solo se interrogato, bacia a comando, praticamente non esprime bisogni.
Intorno a questa terna di protagonisti non comunicati c’è una specie di abbandono degli spazi, un isolamento (non si vedono genitori né amici), per cui in scena non ci sono mai più di due o tre attori, e le scenografie sono il minimo necessario per tradurre i luoghi agli spettatori. Un cinema dello svuotamento che però, più che dilatare i tempi secondo un’estetica che potremmo grossolanamente definire “festivaliera”, gonfia il minutaggio con scene in fotocopia.

Quando ci si sposta in Cile le cose un po’ migliorano, nel senso che la storia procede una scena dopo l’altra (che sembra una cosa scontata, e invece…) e vengono costruiti dei meccanismi di suspense semplici ma efficaci, come quando Marco reincontra Martina, o si trova a dover prendere una decisione sul futuro proprio e del bambino, mettendo sulla bilancia affetti, carriera e orgoglio. La figura del detective privato per qualche minuto conferisce perfino una sfumatura gialla, poi anche questa pista si sbriciola (lo vediamo bere al bar apparentemente turbato, senza spiegazioni, e ricompare di sfuggita alla fine).

Scamarcio è spontaneo e sufficientemente ombroso da giustificare quel che si dice – e non si mostra – del suo personaggio, e tutti gli attori sembrano diretti (il regista è Vincenzo Marra) con un certa libertà di improvvisare.
Ma il film è prima minimalista in modo scomposto, poi costruisce un intreccio senza convinzione, e suona più pretenzioso che sentito.

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