Venezia 73: leggero ed effervescente come un bicchiere di spumante. La recensione di Piuma

Il film di Roan Johnson racconta la storia di due adolescenti alle prese con una maternità inattesa. Con uno sguardo a Juno e uno a Scialla, in alcune scene vi farà morire dal ridere

Che Piuma di Roan Johnson sia stato fischiato e addirittura qualcuno abbia gridato “Vergogna!” al festival di Venezia, dove è stato presentato in Concorso , non stupisce. Il fatto che Barbera abbia infatti accolto nella sezione più prestigiosa, intellettuale e spesso austera della kermesse, una commedia generazionale scoppiettante, fa gridare i critici rigorosi allo scandalo, ma non c’è niente di cui il critico, soprattutto quelli, abbia più bisogno che della leggerezza di un film come quello di Johnson per controbilanciare la pesantezza di polpettoni melò, come ad esempio l’Une Vie di Brizé passato ieri nella sezione competitiva.

Il film è la storia di Ferro (Luigi Fedele) e Cate (Blu Yoshimi), due giovani prossimi alla maturità che si ritrovano ad affrontare una maternità inaspettata. Johnson riesce ad evitare astutamente la questione etica del tenere o non tenere il bambino, adducendo, come principale motivazione al tenerlo, un aborto precedente della ragazza che, se ripetuto, le impedirebbe di rimanere nuovamente incinta. I due ragazzi, quindi, in quell’estate che di solito per tutti i maturandi è contrassegnata dal viaggio indimenticabile che ti cambia la vita, si ritrovano a casa ad ammirare le foto degli amici su Facebook da un appartamentino sulla Tusculana. Non hanno un lavoro, una dimora (sono in prestito a casa del nonno), prospettive per il futuro e l’arrivo del bambino sta sconvolgendo anche i loro equilibri di coppia.

E il film non si ferma a questo, anche se ha un occhio fisso sul nordamericano Juno, ma racconta come l’arrivo del bebé abbia sconvolto la vita dei genitori del ragazzo e soprattutto del padre che sognava di trasferirsi in Toscana, del nonno sfrattato e mezzo infartato, del padre di lei ciarlatano e spiantato. Temi importanti, il cui peso specifico a volte non è trattato bene nel film, che preferisce su tutto la chiave della leggerezza, come dichiarato emblematicamente dall’oggetto del titolo e dall’immagine riuscitissima delle paperelle che compiono un’impresa grandiosa semplicemente galleggiando.

Leggerezza però non fa rima con superficialità in questa opera terza di Johnson, perché a differenza della soluzione prospettata dal film con Ellen Page, i due ragazzi sono seriamente combattuti tra la possibilità di cedere il bambino a una famiglia adottiva e di garantirsi quindi il recupero della gioventù perduta e quella di tenerlo e affrontare tutte le conseguenze del caso, un tema non affatto scontato in un momento storico in cui sono gli stessi genitori a suggerire le soluzioni più comode e in cui si rimanda ad libitum il concepimento in attesa che tutto sia “a posto” per fare spazio a un bambino.

Il regista getta sul tema uno sguardo poetico (di cui Ferro è il principale portatore), un po’ incosciente e affettivo, dove la razionalità ha poco spazio. Ecco perché ci piace, oltre perché Johnson – degno allievo di Paolo Virzì e Francesco Bruno – è bravissimo a scrivere scene comicissime che sembrano discendere direttamente dalla commedia dell’arte o dalla farsa. I primi cinque minuti sono esilaranti e ci sono almeno altri quattro momenti, grazie soprattutto alla figura del padre rassegnato ed esasperato di Ferro, un irresistibile Sergio Pierattini, che scatenano risate irrefrenabili. Sarà anche una commedia che strizza l’occhio al grande pubblico, ma lo fa con grazia e pudore. È forse un peccato?

Il film approderà nelle sale il 20 ottobre.

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