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C’era una volta… a Hollywood, la recensione del film di Quentin Tarantino

C’era una volta… a Hollywood, la recensione del film di Quentin Tarantino

C'era una volta... a Hollywood recensione
PANORAMICA
Regia (5)
Interpretazioni (4)
Sceneggiatura (4)
Montaggio (3)
Colonna sonora (3)

Nei primi minuti di C’era una volta… a Hollywood Rick Dalton (Leonardo DiCaprio) incontra un produttore, Marvin Schwarzs (Al Pacino), preoccupato per la sua carriera. Dopo anni a interpretare lo stesso personaggio in uno show televisivo di grande successo, ora Dalton è relegato a ruoli da comprimario e villain sul piccolo schermo, e “l’unica domanda è chi sarà a prenderti a calci nel sedere la prossima settimana”. Il consiglio di Marvin è di andare per un po’ in Italia a lavorare nei western, ma Rick non è molto convinto: “Hai mai visto quei film? Sono una farsa”, confida all’inseparabile controfigura/stuntman/autista/maggiordomo/amico Cliff Booth (Brad Pitt). Il film è appena iniziato e dei protagonisti del nono film di Quentin Tarantino sappiamo praticamente già tutto. Siamo nel febbraio del ’69 e alla tremenda strage di Cielo Drive perpetrata dai seguaci di Charles Manson, quella in cui morirà la compagna di Roman Polanski, Sharon Tate (Margot Robbie), mancano ancora sei mesi.

Fin da questa primissima parte Tarantino fa un gran uso di parentesi e flashback, traducendo la classica struttura a puzzle dei suoi film in sequenze-mosaico, ma portando sempre avanti la storia in modo lineare.
Solo che la storia non va avanti davvero.
Una volta eretto il suo parco dei divertimenti, e popolato con le due più grandi star viventi, Quentin inizia una lunghissima esplorazione di questo presente alternativo, mai veramente vissuto (all’epoca dei fatti aveva sei anni) ma sempre fantasticato. Si tratta ancora, come ad esempio in Inglourious Basterds, del dominio del cinema sulla storia, perché alle icone d’epoca si sovrappongono nomi e titoli immaginati – film, serie tv, locali notturni, sale cinematografiche, star del piccolo e grande schermo -, facendo lievitare il Creato Tarantiniano a livelli di dettaglio senza precedenti. Un mondo così compiuto e affascinante da riacquistare una paradossale verginità, la stessa appunto di Bastardi senza gloria, quella che azzera le cronache e proietta nel possibile.

Ecco perché la natura più intima di C’era una volta… a Hollywood è nell’esplosione dei suoi dettagli, non nello sviluppo della sua sinossi. La sequenza in cui Booth quasi ammazza Bruce Lee in una rissa sul set, i poster filologicamente corretti dei film che Dalton va a girare in Italia, gli estratti delle serie tv che interpreta e poi rivede la sera sul piccolo schermo assieme all’amico Cliff, tutto contribuisce al piacere e alla passione che Tarantino vuole trasferire al pubblico, scegliendo ogni volta l’approccio registico più generoso, lo sguardo più commosso. È sempre stata la natura del suo lavoro, solo che ora non ci sono più i generi e i prototipi della serie B (gli spaghetti western, la blaxploitation, il wuxia, il noir di Hong Kong, eccetera) a mediare il gesto, è il cinema stesso il set del film, quindi l’omaggio acquisisce  trasparenza, si cristallizza.

Tarantino ha detto più volte di non voler andare oltre il decimo film e in un certo senso una pellicola come C’era una volta… a Hollywood sembra confermarne le intenzioni, non perché sia meno brillante o inventiva di opere come Django Unchained o The Hateful 8, ma perché indica la chiusura di un cerchio, il ritorno di un’ispirazione – che ha funzionato da prisma per la creazione di mondi derivativi ma straordinari – alla propria origine, cioè a se stessa.
Ora che Quentin ha mostrato il dietro le quinte del suo universo, un presente storico destinato a non passare, quanto gli resta in tasca o in testa per raccontare altre storie?
Ci vorrebbe un horror magari, un horror vero e non mediato da altri generi, o la fantascienza, forse il nuovo Star Trek potrebbe essere davvero il posto giusto per lui.

Foto: ©Sony Pictures Ent.

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