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Elvis: la recensione del film di Baz Luhrmann con Austin Butler

Il biopic del re del rock’n’roll con Tom Hanks e Austin Butler è arrivato al cinema dopo essere stato presentato Fuori Concorso al 75esimo Festival di Cannes

Elvis: la recensione del film di Baz Luhrmann con Austin Butler

Il biopic del re del rock’n’roll con Tom Hanks e Austin Butler è arrivato al cinema dopo essere stato presentato Fuori Concorso al 75esimo Festival di Cannes

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PANORAMICA
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Sceneggiatura (3)
Fotografia (3)
Montaggio (3)
Colonna Sonora (4)

La gran parte dei 160 minuti (due ore e trentanove) di Elvis trascorrono sul palcoscenico: come se avesse trovato la materia perfetta per il suo cinema barocco e sottilmente decadente, come se il Presley performer ne fosse in qualche modo l’incarnazione febbricitante, Baz Luhrmann adopera il punto macchina come catalizzatore di un energia creativa che è al contempo sua e del suo personaggio, affidando la narrazione di questa doppia mitopoiesi a uno sguardo (teoricamente) terzo, lo sguardo del marketing, dell’analisi di prodotto e dell’esegesi del culto, rappresentata dal colonnello Tom Parker (Tom Hanks), storico manager del Re.

Non è una scelta banale e quindi è meglio ribadirla, nel film c’è moltissimo ma moltissimo resta anche fuori, in un certo senso quasi tutto: come nel documentario su Jerry Lee Lewis firmato da Ethan Coen (anch’esso presentato Fuori Concorso a Cannes 75), Elvis è raccontato attraverso l’effetto che fa, e in questo caso – essendo fiction – attraverso la sua rielaborazione grafica, la sua messa in posa (tutto il progetto creativo attorno al film è straordinario, a partire dai molti character poster). Nella prima, splendida scena in cui Parker va a studiare un concerto del giovane Elvis, quello che osserva sono le reazioni delle ragazze in mezzo al pubblico, il modo in cui reagiscono ai suo movimenti – un misto di irrefrenabile eccitazione, pudore e senso di colpa.

Questa potenzialità dell’icona Elvis come macchina spettacolare, e di conseguenza come creatura cinematografica, è quindi esplorata per oltre due ore, con pochissimo interesse per le comuni dinamiche da biopic. La dimensione familiare (il rapporto con la moglie Priscilla e la figlia Lisa in particolare) è marginale, la formazione musicale è ridotta a un velocissimo flashback e solo la collocazione storica ha un certo peso (la guerra, l’omicidio Kennedy, quello di Martin Luther King), ma perché agisce direttamente sul percorso professionale di Presley, sulla sua paranoia, sulla sua salute e sulla calcificazione delle dinamiche di controllo esercitate dal colonnello su di lui. Ma è comunque sempre il palco a risucchiarlo e risucchiarci, è sempre la musica a travolgere il film, a determinare questo vigoroso flusso sinestetico assieme alla violenta palette cromatica.

E così l’Intercontinental, l’hotel di Las Vegas dove Elvis si esibirà contro la sua volontà per oltre cinque anni, imprigionato dai ricatti economici, dall’abuso di droghe e dalla manipolazione psicologica di Parker, si rivela infine nell’ultimo atto la forma di una metamorfosi: il biopic rutilante assume le connotazioni dell’incubo gotico, mentre il destino del Re del rock’n’roll va a compiersi.

C’è ancora, come a risarcimento, prima dei titoli di coda, un momento di grande dolcezza, l’ultimo concerto, Unchained Melody, un commiato affidato all’amore. Ma Elvis non è una cosa né l’altra, non è nell’incubo e non è nell’amore, benché entrambi trovino momenti di grande forza: è un’estasi dinamica, sfrenata, scintillante che, si capisce, Baz Luhrmann avrebbe voluto non finisse mai.

Foto: Warner Bros.

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