Chi si ricorda di Joshua Oppenheimer? È un regista di documentari e in particolare è il regista di The Act of Killing, uno tra i pochi capolavori conclamati del ventunesimo secolo, il film in cui incontra – oggi che l’Indonesia è una Repubblica democratica – gli uomini che nel 1965 condussero gli omicidi di massa per conto della giunta militare, torturando e sterminando a migliaia i contadini e gli intellettuali accusati di essere comunisti, assieme alle loro famiglie. Assassini spietati, che oggi conducono in pubblico vite tranquille, senza negare il proprio passato. Oppenheimer li circuisce pian piano e li invita a rimettere in scena in prima persona quel passato, come se volesse girare una fiction sulla storia del paese. La premessa serve a dare qualche coordinata per questo suo debutto nel cinema di finzione, a capire l’interesse che ha per i riflessi tra verità e simulazione, tra le nostre azioni e la nostra coscienza. The End, presentato al Festival di San Sebastián, è ambientato dopo l’apocalisse climatica, in una specie di bunker di lusso arredato come un appartamento, che isola e dà rifugio da oltre due decenni alla famiglia di un ex magnate del petrolio. L’appartamento comprende una piscina, una biblioteca, una galleria d’arte e perfino una serra, un acquario e un ambulatorio medico.
Il tutto si trova centinaia di metri sotto terra, all’interno di una miniera di sale: il film non si preoccupa di approfondire il funzionamento della struttura, ovvero come sia rimasta attiva per decenni, limitandosi a lasciarlo intuire. Il punto, insomma, non è come funziona la casa, ma come funzionano le persone che la abitano. Oltre alla madre (Tilda Swinton), al padre (Micheal Shannon), e al figlio concepito in isolamento 25 anni prima (George McKay), ci sono un medico, un maggiordomo e una donna misteriosa, che tiene sul comodino la foto del figlio scomparso prematuramente.
A questo punto bisogna aggiungere che The End è un musical e che il canto è l’unico “punto di fuga” del film, il modo in cui i personaggi elaborano le propri emozioni e gli spettatori il racconto. Inizialmente i protagonisti cantano il loro paradossale benessere, la loro fiducia nel futuro, i profondi sentimenti che li legano reciprocamente, ed è qui che il film si lega a The Act of Killing, cioè nel rappresentare un processo di rimozione collettivo: il padre nega le sue responsabilità nel processo di degrado climatico, la madre nega di aver abbandonato la famiglia per salvarsi, il figlio nega la sua esigenza di vedere il mondo. E così via.
Rispetto al documentario però è chiaro che la rimozione riguarda tutti, anche noi che osserviamo, e che la fuga nel musical – cioè nel meccanismo di genere, nella macchina dell’intrattenimento più in generale – è il modo più facile per smarcarsi dalla domanda che il film pone e alzare l’indice contro qualcuno. Poi, all’inizio del secondo atto, una ragazza, la prima intrusa dopo vent’anni, scuote gli equilibri e pone sulla famiglia uno sguardo esterno e destabilizzante, fornendo una prospettiva e scatenando la crisi delle coscienze, la riemersione del subconscio (come Oppenheimer fa con gli aguzzini in The Act of Killing).
Chi sarà alla fine ad adeguarsi a chi? La sopravvissuta al nuovo benessere, o i privilegiati al richiamo a una responsabilità collettiva? Questa scelta è affrontata da The End in modo molto astuto, anche se per arrivare a una risoluzione impiega un minutaggio eccessivo. C’è tanta musica, tanto canto, tanti intrecci sentimentali, tanti drammi e tanti momento grotteschi: c’è tanto di tutto, forse troppo, e nulla di rivoluzionario. La conseguenza è che per godere del film è fondamentale (e non scontato) innamorarsi dell’esperienza estetica che ti offre, restare “collegati” tutto il tempo. Un gran bel lavoro, un po’ fuori misura.
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