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San Sebastián 2024 – The End: la fine del mondo secondo Joshua Oppenheimer. La recensione

Il regista di The Act of Killing approda al cinema di finzione con un film ambientato in un bunker di lusso dopo un'apocalisse climatica

San Sebastián 2024 – The End: la fine del mondo secondo Joshua Oppenheimer. La recensione

Il regista di The Act of Killing approda al cinema di finzione con un film ambientato in un bunker di lusso dopo un'apocalisse climatica

recensione di the end di joshua oppenheimer

Chi si ricorda di Joshua Oppenheimer? È un regista di documentari e in particolare è il regista di The Act of Killing, uno tra i pochi capolavori conclamati del ventunesimo secolo, il film in cui incontra – oggi che l’Indonesia è una Repubblica democratica – gli uomini che nel 1965 condussero gli omicidi di massa per conto della giunta militare, torturando e sterminando a migliaia i contadini e gli intellettuali accusati di essere comunisti, assieme alle loro famiglie. Assassini spietati, che oggi conducono in pubblico vite tranquille, senza negare il proprio passato. Oppenheimer li circuisce pian piano e li invita a rimettere in scena in prima persona quel passato, come se volesse girare una fiction sulla storia del paese. La premessa serve a dare qualche coordinata per questo suo debutto nel cinema di finzione, a capire l’interesse che ha per i riflessi tra verità e simulazione, tra le nostre azioni e la nostra coscienza. The End, presentato al Festival di San Sebastián, è ambientato dopo l’apocalisse climatica, in una specie di bunker di lusso arredato come un appartamento, che isola e dà rifugio da oltre due decenni alla famiglia di un ex magnate del petrolio. L’appartamento comprende una piscina, una biblioteca, una galleria d’arte e perfino una serra, un acquario e un ambulatorio medico.

Il tutto si trova centinaia di metri sotto terra, all’interno di una miniera di sale: il film non si preoccupa di approfondire il funzionamento della struttura, ovvero come sia rimasta attiva per decenni, limitandosi a lasciarlo intuire. Il punto, insomma, non è come funziona la casa, ma come funzionano le persone che la abitano. Oltre alla madre (Tilda Swinton), al padre (Micheal Shannon), e al figlio concepito in isolamento 25 anni prima (George McKay), ci sono un medico, un maggiordomo e una donna misteriosa, che tiene sul comodino la foto del figlio scomparso prematuramente.

A questo punto bisogna aggiungere che The End è un musical e che il canto è l’unico “punto di fuga” del film, il modo in cui i personaggi elaborano le propri emozioni e gli spettatori il racconto. Inizialmente i protagonisti cantano il loro paradossale benessere, la loro fiducia nel futuro, i profondi sentimenti che li legano reciprocamente, ed è qui che il film si lega a The Act of Killing, cioè nel rappresentare un processo di rimozione collettivo: il padre nega le sue responsabilità nel processo di degrado climatico, la madre nega di aver abbandonato la famiglia per salvarsi, il figlio nega la sua esigenza di vedere il mondo. E così via.

Rispetto al documentario però è chiaro che la rimozione riguarda tutti, anche noi che osserviamo, e che la fuga nel musical – cioè nel meccanismo di genere, nella macchina dell’intrattenimento più in generale – è il modo più facile per smarcarsi dalla domanda che il film pone e alzare l’indice contro qualcuno. Poi, all’inizio del secondo atto, una ragazza, la prima intrusa dopo vent’anni, scuote gli equilibri e pone sulla famiglia uno sguardo esterno e destabilizzante, fornendo una prospettiva e scatenando la crisi delle coscienze, la riemersione del subconscio (come Oppenheimer fa con gli aguzzini in The Act of Killing).

Chi sarà alla fine ad adeguarsi a chi? La sopravvissuta al nuovo benessere, o i privilegiati al richiamo a una responsabilità collettiva? Questa scelta è affrontata da The End in modo molto astuto, anche se per arrivare a una risoluzione impiega un minutaggio eccessivo. C’è tanta musica, tanto canto, tanti intrecci sentimentali, tanti drammi e tanti momento grotteschi: c’è tanto di tutto, forse troppo, e nulla di rivoluzionario. La conseguenza è che per godere del film è fondamentale (e non scontato) innamorarsi dell’esperienza estetica che ti offre, restare “collegati” tutto il tempo. Un gran bel lavoro, un po’ fuori misura.

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