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Succession: al gioco del trono o si vince o si muore. La recensione della quarta e ultima stagione

L'acclamata serie con Brian Cox ha emesso il suo verdetto finale e svelato chi erediterà l'impero del suo controverso personaggio

Succession: al gioco del trono o si vince o si muore. La recensione della quarta e ultima stagione

L'acclamata serie con Brian Cox ha emesso il suo verdetto finale e svelato chi erediterà l'impero del suo controverso personaggio

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PANORAMICA
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È iniziato tutto con una domanda, trascinata nel tempo e nello spazio per quattro intense stagioni: chi erediterà l’impero costruito da Logan Roy? Le sorti dell’azienda fondata dal nulla dal magnate dei media, del cinema e dell’intrattenimento americano interpretato (mostruosamente) da Brian Cox hanno fatto da trait d’union alle vicende umane e familiari di Succession, a conti fatti destinata e entrare nell’Olimpo della serialità.

Con la quarta stagione (QUI la recensione dei primi episodi), la serie creata da Jesse Armstrong ha raggiunto vette drammatiche clamorose, avvicinabili a totem della narrazione televisiva come I Soprano, Mad Men e Breaking Bad, condividendo al contempo l’assunto di base con una serie dal taglio fantasy come Il Trono di Spade. Anche in quel caso, al centro di tutto ci sono giochi di potere, tradimenti, alleanze e la sensazione che tutti i personaggi siano persi in un labirinto di idiosincrasie e ipocrisie, schiacciati dal peso del gioco stesso al quale sono, per natali e ambizioni, costretti a partecipare.

Succession è stata sin dal primo episodio un brillante tableau vivant dell’alto capitalismo americano e del neoliberismo dei suoi media: Logan Roy sta a Rupert Murdoch come la WayStar Royco sta alla News Corp e l’emittente ATN alla tanto criticata Fox News. Un’analisi che, curiosamente, non viene condotta internamente agli Stati Uniti: Jesse Armstrong è uno sceneggiatore e produttore che arriva dalla satira inglese, uno degli elementi più importanti della scrittura della serie, confezionata grazie al lavoro di altri due nomi forti (questa volta sì americani) come Will Ferrell e Adam McKay – la coppia di Anchorman – La leggenda di Ron Burgundy e sequel. McKay però è anche il regista di La grande scommessa, Vice e Don’t look up, oltre che della serie Winning Time, ovvero riletture storiche o attuali di grandi eventi e personaggi legati proprio al capitalismo americano e alle sue continue trasformazioni.

Schiacciati da questo fenomeno socio-economico e da una plutocrazia imperante, i tre figli di Logan Roy (interpretati altrettanto mostruosamente da Jeremy Strong, Sarah Snook e Kieran Culkin) hanno dovuto fare i conti prima con l’ingombrante presenza del padre e dopo con la sua traumatica assenza. Nella quarta stagione avrebbero potuto liberarsi dal peso soffocante delle loro maschere, ma invece hanno deciso di andare incontro al destino, di sfidare la sorte e ritrovarsi di fatto a dover affrontare non solo il guru delle nuove tecnologie e dello streaming interpretato da Alexander Skarsgård – in una riuscita lettura meta-testuale: HBO che riflette su come i nuovi media inglobino i vecchi – quanto le loro stesse inadeguatezze.

Il tessuto drammatico è ricamato su trame chiaramente shakespeariane: le principali opere del Bardo sul potere – da Amleto a Re Lear passando per Macbeth – ancora una volta hanno fornito i punti cardinali ad un racconto che in maniera anche “coppoliana” ricalca la dicotomia alla base de Il Padrino e mette insieme il mondo del lavoro con quello della famiglia. Un rapporto di co-dipendenza al quale Kendal, Shiv e il fragile Roman non riescono a sottrarsi, finendo con l’anteporre sempre il primo al secondo e perdere ripetutamente la bussola morale. Succede anche nel finale della quarta stagione che, senza spoilerare, passa dal momento più genuino e intimo tra i tre fratelli a quello più greve e tragico.

Proprio il finale contribuisce non poco a rendere Succession una delle migliori serie mai realizzate: resta fedele alla sua linea, non cede alla tentazione di una risoluzione compiacente per lo spettatore ma anzi ribadisce fino all’ultimo intenso secondo che abbiamo assistito ad una partita truccata da veleni e amoralità, in cui tutto è tanto lecito quanto disgustoso, per certi versi. Il peggior finale possibile, ma per questo è anche il migliore. Così come i personaggi più detestabili sono quelli a cui ci siamo affezionati di più. Una costante rinegoziazione per il cui epilogo vale la stessa regola aurea alla base di Game of Thrones: al gioco del trono, o si vince o si muore. Succession è morta, viva Succession.

Foto: MovieStills

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