The Crown 5: il gioiello ossidato sulla corona di Netflix. La recensione della nuova stagione

Cambiano gli interpreti ma non la loro qualità, tuttavia questa volta Peter Morgan non ha gestito al meglio il materiale narrativo scadendo a volte nel pessimo gusto

the crown 5 recensione
PANORAMICA
Regia (2.5)
Sceneggiatura (2)
Interpretazioni (4.5)
Fotografia (4)
Montaggio (2.5)
Colonna sonora (3)

Affrontare la quinta stagione di The Crown senza considerare la stortura temporale del contesto in cui è uscita su Netflix, lo scorso 9 novembre, non è semplice. La serie creata da Peter Morgan e giunta al suo secondo re-casting, aveva già di fronte a sé una sfida impegnativa dettata dall’avvicinamento cronologico del racconto, ma la morte della Regina Elisabetta II a inizio settembre ha – ça va sans dire – reso il compito ancor più delicato.

Il punto di partenza dei nuovi episodi è lo stesso: la reificazione del concetto di Corona, di monarchia britannica, di potere costituito e dei suoi simboli in persone che sono tutto fuorché entità aliene ai sentimenti, desideri e persino voluttà. Sin dalla prima stagione The Crown ha operato su questo doppio binario semiotico, ora separando e ora avvicinando Elisabetta alla sovrana il cui solo scopo per oltre 70 anni è stato ergersi a integerrimo simbolo di unità nazionale. 

Nella quinta stagione viene però raccontato il periodo peggiore del suo regno, quello in cui il sistema Corona è stato messo ripetutamente in discussione e a repentaglio da scandali e tragedie. La rovina dello yatch reale Britannia è la metafora apri-pista che conduce al racconto dell’annus horribilis della Regina (il 1992) durante il quale tre dei quattro figli si separarono e il Castello di Windsor venne distrutto da un devastante incendio, quindi via a valanga verso il cosiddetto tampongate di Carlo e Camilla, nonché il divorzio dell’attuale Re dalla Principessa Diana.

Come di consueto, Peter Morgan si è infilato tra le pieghe della Storia per ricavarne delle storie, dichiaratamente romanzate affinché questa cesellata metafora sul potere monarchico come sistema logorante delle relazioni e delle personalità umane – «Distruggiamo ciò che è diverso, chiunque abbia carattere, originalità, entusiasmo, verve e luce propria non ha posto in questo sistema» viene detto nei primi episodi – potesse trovare ragione d’esistere. Un’operazione valida nelle prime stagioni ma che ora ha mostrato evidenti segni di cedimento.

La vicinanza cronologica dei fatti ha infatti inevitabilmente titillato la memoria storica del pubblico e dei diretti interessati, col risultato che oltre alle polemiche che hanno accompagnato l’uscita della quinta stagione, molti passaggi di The Crown hanno perso il gusto del dramma in costume per diventare espressione di una parziale rivisitazione storica non solo non necessaria, ma a larghi tratti di cattivo gusto. L’emblema di questa idiosincrasia è la linea narrativa riservata al Principe Carlo ora interpretato da Dominic West.

Se questi nuovi episodi fossero usciti prima dell’8 settembre 2022, la pomposità con la quale è stato dipinto l’erede al trono sarebbe stata solo sinonimo di una galvanizzante speranza per il futuro, ma la morte della Regina ha inevitabilmente mutato la sensibilità ricettiva di questi sbrodolamenti su possibili rivoluzioni dagli echi addirittura repubblicani da parte di Carlo. Non hanno aiutato le scene di presunti (e più volte negati) colloqui con gli ex premier John Major e Tony Blair, durante i quali l’attuale re del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord e degli altri quattordici reami del Commonwealth sembra organizzare persino un coup d’état ideologico contro la madre-sovrana.

Oltre a Carlo, The Crown 5 è stata inevitabilmente anche la stagione di Diana Spencer. Rispetto al recente biopic di Pablo Larraín con Kristen Stewart, il racconto della sua solitudine e infelicità qui è meno fisico e orrificamente tormentato da fantasmi. Assume anzi i contorni di una spy story (persino esagerata nella sua indulgenza) quando deve raccontare i retroscena dell’intervista che ha crepato forse per sempre l’idea di Corona come entità familiare assoluta, mentre si tinge di note teen e melò nel mettere in scena i suoi impacciati ma desiderosi tentativi di nuovi amori – «Ho già avuto un principe e mi ha spezzato il cuore, ora cerco un ranocchio che mi faccia felice» viene fatto dire alla nuova interprete, Elizabeth Debicki.

Curiosamente, l’operazione empatica condotta nei confronti di Carlo e Diana è inversamente proporzionale: eleva lui verso l’alto e lei verso il basso, per acuirne i rispettivi pregi e guardare a questa Marriage Story reale nella maniera più favorevole e accondiscendente possibile. Un tratto comune anche agli altri personaggi: dalla Principessa Margaret di Leslie Manville allo straordinario Principe Filippo di Jonathan Pryce, quasi tutti trovano tempo e spazio per un percorso di redenzione fin troppo bonario e superfluo, come se le loro esistenze in funzione del centro gravitazionale rappresentato da Elisabetta (una perfetta Imelda Staunton) dovessero essere giustificate e divenire per gentile contrappasso umane troppo umane.

All’ultimo giro di boa, prima della stagione finale, The Crown ha perso parecchio: in appeal, ritmo e focus del racconto (del tutto ininfluenti per ora le linee relative agli Al-Fayed o l’episodio relativo a Casa Ipatiev), ma ha dalla sua ancora una volta valori produttivi fuori scala ed un’eleganza espositiva mai opulenta. Resta la migliore tra le serie originali Netflix, ma è rimasta vittima della sua stessa metafora: il tempo (interno ed esterno al racconto) non ha giocato a suo favore e ne ha reso evidenti le crepe. Nella sesta stagione si arriverà alla morte di Diana: un’altra sfida ai limiti dell’impossibile.

Foto: MovieStills

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