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Sotto il cielo delle Hawaii: la recensione di Mauro Lanari

“Anche quelli che non amano particolarmente i suoi film, riconoscono a Cameron Crowe la capacità di metter’assieme colonne sonore di grande interesse, vere e proprie compilation di brani noti e meno noti ma sempre d’impeccabile gusto. La cosa non sorprende, considerato ch’il regista di ‘Quasi famosi’ (storia notoriamente autobiografica) nasce come giornalista e critico musicale, giovane e stimata firma di ‘Rolling Stone’ e altre riviste.” Ho rivist’il mese scorso il suo celebrat’esordio dell’89, “Non per soldi… ma per amore”, ed è invecchiato male quanto, a es., un “Fragole e sangue”: Lili Taylor suscit’antipatia da tutt’i pori e la c.d. “grande prestazione di John Cusack” si riduce a lui ripreso nell’unica espression’a bocc’aperta. Per giunta il background di Crowe intrid’il film non solo nella soundtrack m’addirittura nelle location e negl’oggetti sul set. A volte gli è capitato d’azzeccare la canzone giusta per la scena invece di ridurr’il proprio cinem’a pretesto per propinarci la sua tracklist preferita. È il caso dell’incipit di “Vanilla Sky” (2001) con Cruise alla guida d’una Ferrari 250 GTO in una Manhattan deserta mentr'”Everything in Its Right Place” dei Radiohead esalt’il senso di straniamento (https://www.youtube.com/watch?v=HTkf1X6RIPw). Connubi audio-visivi purtroppo sporadici e “Sotto il cielo delle Hawaii” non fa eccezione. Ma qui Crowe punt’a qualcosa di più ambizioso: nel marasma dello script che ha decretato il flop del film da parte di critica e botteghino, alla fine si capisce dov’intendesse andare a parare: la musica come contro-arma di smilitarizzazione. Infatt’il il satellit’esplode per l’overload d’un file sonoro. L’utopia secondo Crowe: prender’o lasciare.

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