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The Green Inferno: la recensione di Mauro Lanari

Si camuffa da remake d'”Hannibal Holocaust” (1979) omaggiando Deodato sui titolo di coda, ma evita il “found footage” e inserisce un discorso politico quantomeno decente: la studentessa d’etnoantropologia Justine ha fondati dubbi sia sul mito del buon selvaggio che su quello della “civiltà da esportare”, combatte l’infibulazione ma pure l’ingenuo attivismo ecoambientalista (vegana inclusa) capeggiato da un leader che si svelerà al soldo d’una faida tra multinazionali. Il loro aereo precipiterà non per un avaria bensì, come lo stesso Alejandro suggerisce, poiché sabotato dai competitor. E mentr’il film delude gl’assetati/affamati d’horror, splatter, gore, è d’interesse la gara alla peggior efferatezza e crudeltà fra mondo amazzone e mondo occidentale, un ultraliberismo altrettanto cinicamente cruent’e letale, antropofago e tagliatore di teste, selvaggio e barbaro. Critici e pubblico delusi per un “cannibal movie” con violenza, ferocia, brutalità, truculenza estrema in eccess’o in difetto, troppo presi dalle loro fregole moraleggianti o sadiche per cogliere la severa critica rivolta loro da Roth: “ragazzi che pensano di dominare il pianeta con l’arroganza e uno smartphone in mano”. “Chissà se il buon Eli, oltre a Deodato, conosce anche Marco Ferreri. ‘The Green Inferno’, infatti, ricorda non poco ‘Come sono buoni i bianchi’ (1988)” (Francesco Alò, “Il Messaggero”).

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