Siamo stati ai Pixar Studios per scoprire com’è nato Inside Out

Abbiamo visitato la Pixar, ovvero la fabbrica dei sogni animati che ormai da vent’anni rivoluziona il nostro immaginario e i giochi dei bambini di tutto il mondo. E l’abbiamo fatto per scoprire come è stato creato, passo dopo passo, il loro nuovo capolavoro

Tre colonne di mattoni sorreggono la mitica insegna nera, con le lettere sottili e distanti. Il piccolo gruppo di giornalisti di cui faccio parte la supera alle otto e un quarto di venerdì 1 maggio 2015, entrando ufficialmente nei Pixar Animation Studios: non c’è al mondo un posto come questo. Nel piccolo spiazzo di fronte all’entrata dell’edificio principale torreggia un’enorme riproduzione della leggendaria lampada protagonista del corto Luxo Jr. Lo Steve Jobs Building, inaugurato nel 2000, è nato con un intento preciso: coniugare creatività e svago: l’enorme androne centrale possiede ogni tipo di comfort per i suoi dipendenti, dal biliardo al calcio balilla, passando per il bar e i comodi divani. Gli spazi sono ampissimi, e abitati da copie giganti dei vari Woody e Buzz Lightyear, Sulley e Mike, oltre alle macchine di Cars. E se poi mettete fuori il naso in giardino (ma sarebbe meglio dire parco), ci trovate addirittura un campo da calcio…

Ma torniamo dentro: dopo un’abbondante colazione ci spostiamo nel Brooklyn Building per la proiezione di Inside Out, il motivo specifico per cui siamo venuti. La visione del film ci lascia a bocca aperta (qui potete leggere la nostra recensione) ed è il viatico per le interviste ai realizzatori del film. Il primo a parlarci di Inside Out è il montatore Kevin Nolting: «Io ricevo dallo story deparment tutti i disegni che compongono l’ossatura della storia e inizio dare loro il ritmo di un film. Il che significa non solo montaggio, ma anche effetti sonori e musica. All’inizio registriamo le voci dei personaggi con i dipendenti, solo in seguito gli attori arrivano a doppiare. Io devo creare il tempo del film, il primo intervento veramente cinematografico».

Poi è il turno di Patrick Lin, direttore della fotografia: «Lavoriamo sulle inquadrature come se fossimo in un film live-action, su un vero set. Simuliamo diverse focali, movimenti di macchina e tutto il resto. Per differenziare i due mondi abbiamo adoperato lenti differenti: per San Francisco, dove vive la famiglia della piccola protagonista, sfruttavamo spesso la perdita di fuoco per evidenziare l’insicurezza che Riley vive nella nuova città». Inside Out racconta infatti le emozioni di una ragazzina cresciuta in campagna e costretta a trasferirsi in una metropoli quando il papà cambia lavoro. E queste emozioni – la gioia, la tristezza, il disgusto, la rabbia e la paura – sono letteralmente le protagoniste del film, nelle vesti di cinque coloratissimi personaggi di fantasia, che interagiscono nella mente della ragazzina e nelle stanze della sua memoria. «Quando la bambina è ancora felice, i movimenti sono liberi e ariosi, mentre quando è triste si fanno più controllati. Quando prova emozioni controverse abbiamo poi simulato la macchina a mano, fonte di instabilità e insicurezza. Anche la composizione del quadro è fondamentale: Riley è al centro tra i genitori quando è gioiosa, mentre si sposta ai margini dell’inquadratura quando il suo umore si rabbuia». E Kim White, responsabile degli effetti visivi, aggiunge: «Attraverso diverse gradazioni di luce e colori, abbiamo caratterizzato il mondo reale in maniera opposta a quello nella mente di Riley: il primo è stato rappresentato con poco contrasto e pochissima saturazione, tutto il contrario di quello interno, dove invece è un trionfo di colori accesi».

Scatta la pausa pranzo, e ci viene concesso di scorrazzare per la hall dell’edificio e immortalarci insieme al mostro Sulley e alla famiglia degli Incredibili. Poi l’inevitabile giro al negozio interno di gadget, dove è impossibile non acquistare qualche souvenir. Un breve tour al secondo piano ci illumina sulla storia e la struttura dello Steve Jobs Building, poi si torna alle interviste e tocca al co-regista Ronnie Del Carmen: «Con Pete Docter ci siamo chiusi in una stanza per settimane, avevamo un’idea che doveva trasformarsi in trentacinque scene per un’ora e mezza di film. Quando niente sembra funzionare cerchi di distrarre la mente disegnando altro. Tra noi due è diventato un corpo a corpo, a volte fai ridere l’altro, a volte lo metti in difficoltà. Ricordo che all’inizio Tristezza doveva essere più grande di Gioia, poi ci siamo resi conto che nelle scene insieme la proporzione non funzionava, soprattutto nelle scene di dialogo. Allora le abbiamo riequilibrate». […].

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Leggi anche l’intervista al regista Pete Docter.

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