Ci sono film che disturbano per ciò che mostrano e altri che inquietano per ciò che suggeriscono. Alcuni lo fanno con la violenza, altri con la perversione, altri ancora con una visione talmente contorta della normalità da renderla irriconoscibile. Ci sono poi quei film che, pur evitando l’estetica esplicita dell’horror estremo, riescono a insinuarsi nella mente del pubblico con una forza che supera il tempo. Oggi, a oltre mezzo secolo dalla sua uscita, vogliamo parlare di un film che si inserisce proprio in questa categoria: un titolo raramente citato nei canonici elenchi del cinema disturbante, ma che chi lo ha visto difficilmente dimentica. Parliamo di The Baby,
Diretto nel 1973 da Ted Post, mescola melodramma e thriller psicologico in un modo che ancora oggi spiazza. La protagonista è una giovane assistente sociale, Ann Gentry, che viene assegnata al caso di una famiglia composta da una madre vedova, due figlie e un figlio… adulto, che viene però trattato in tutto e per tutto come un neonato. Indossa il pannolone, gattona, non parla. Tutto intorno a lui è stato costruito per mantenerlo in uno stato di regressione infantile. Ma è davvero un caso clinico? Mentre Ann cerca di intervenire per “liberare” il ragazzo da quella condizione apparentemente imposta, le cose iniziano a farsi sempre più ambigue. E quando scopriamo le vere motivazioni di tutti i personaggi coinvolti, il film compie una virata sorprendente, che lo eleva da bizzarria kitsch a cupo incubo domestico.
The Baby è un film unico nel suo genere, proprio perché gioca con i codici del melodramma anni ’70 e li trasforma in qualcosa di profondamente disturbante. Non c’è sangue, non c’è gore, ma la tensione è costante, il disagio crescente, e il finale ha la potenza narrativa di un proverbiale “pugno allo stomaco”. La regia è insospettabilmente sobria, il tono sospeso tra il grottesco e il tragico, e la performance dell’attore che interpreta il neonato adulto, David Mooney, è di un’intensità disarmante.
Più che un horror, The Baby è una messa alla prova. Un film che ci mette di fronte a domande scomode sulla famiglia, sul controllo, sull’identità e sull’infanzia usata come gabbia. E forse è proprio per questo che anche dopo 52 anni continua a inquietare come pochi altri. Chi è disposto a spingersi oltre, troverà qui uno dei racconti più morbosi e disturbanti che il cinema americano abbia mai prodotto.
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