Assassinio sull’Orient Express: la nuova versione di Branagh è un piacere d’altri tempi. La recensione

Johnny Depp, Judi Dench, Willem Dafoe e il regista inglese nei panni (e nei baffi) mitici di Poirot, sono tra i protagonisti di questa nuova versione cinematografica del classico di Agatha Christie

Assassinio sull'Orient Express

In epoca di spoiler-fobia è per lo meno rimarchevole che una grande distribuzione come la Fox decida di affidare a un regista classico e teatrale come Kenneth Branagh un grande cast e l’adattamento del più famoso romanzo di Agatha Christie, Assassinio sull’Oriente Express, ovvero il più basico dei whodunit (crasi inglesi per “Chi è stato?”), un film che dentro l’unità di tempo e luogo mette tutti gli interrogatori, le bugie, le false piste e i moventi possibili, in vista di una risoluzione finale. È rimarchevole perché il romanzo data addirittura 1933 e ha già avuto una riduzione per lo schermo leggendaria nel 1974, con Albert Finney nei panni di Poirot e, tra gli indiziati, gente come Ingrid Bergman, Lauren Bacall e Sean Connery.

Altri tempi, oggi per un teenager è più facile sapere ogni singolo morto della terza stagione di Game of Thrones che due titoli della bibliografia della Christie, e comunque il film ha tutto un altro pubblico, è cinema stagionale più che generazionale, cinema da cioccolata calda, da marciapiedi bagnati, da digestione domenicale e da pisolino prima dell’intervallo, cinema mentre fuori nevica e tu ti siedi ma ti accucci nel cappotto.

In questo senso svolge un servizio d’altri tempi, perché pensa la sala come un’opportunità e non come fase minore di un ciclo commerciale, come Dunkirk prova a rinnovare una specie di patto con l’immaginario dei cinefili, a trattenerli in platea.

Il paradosso è semmai un altro, cioè che i film di Branagh sono sempre una forma di narcisismo e una versione arricchita del teatro, qui ogni dialogo si riduce a poco più dei suoi baffi immensi, o ai decori del treno, ai fazzoletti monogrammati, alle vestaglie di chiffon, ai tramonti, la parola stessa suona setosa, come un arredo. Gli attori sono bravi, ma utilizzati come il maestoso scenario montano, cioè decorativi a partire dai loro nomi e dalla loro carriera, al punto che perfino il doppiaggio – con i grossolani accenti europei – suona appropriato, è solo un’altra forma dei costumi.

Cosa resta allora dei personaggi di Agatha Christie, del suo ragionamento su limiti e giustificazioni della giustizia privata, della sua soluzione così poco politicamente corretta? Direi un eco, come una vecchia discussione ormai accantonata, che non sai se devi ancora prendere sul serio oppure ascoltare per inerzia, in cerca di un’altra verità.

Eppure in questo costoso allestimento, in questo piacere del gioco letterario, investigativo, teatrale, sopravvive una forma onesta di artigianato semi-digitale, perfettamente appropriato per l’inverno e per chi non smette di aver voglia di scaldarsi con i film, e le buone storie.

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