Cannes 2016: l’emozionante incontro di Best Movie con George Clooney e Julia Roberts. Ecco l’intervista con i due divi

Abbiamo incontrato i due attori, al Festival per presentare Money Monster di Jodie Foster, in una suite dell'Hotel Carlton, durante un soleggiato pomeriggio di primavera

George Clooney Julia Roberts

“Ciaaaaaaaao!”
“Buongiorno George”
“Buongioooorno? Buonaseeeeera. A quest’ora… buonaseeera!”

George Clooney è allegro, sa che l’intervista sarà condotta da tre italiani, ha voglia di creare un ambiente amichevole e usa la nostra lingua aprendo le vocali esageratamente come fanno gli americani quando ci imitano.

È un pomeriggio soleggiato e ventoso a Cannes, siamo in una gigantesca suite al settimo piano dell’Hotel Carlton, rivoltata come un calzino per le riprese televisive: mobili spinti verso i muri e riflettori spenti come enormi lampade. Ho saputo che l’avrei incontrato soltanto mezz’ora prima e non ho ancora visto il film – sono eccitato ma anche un po’ stranito.

Piccolo dettaglio: con lui c’è Julia Roberts.

Pur facendo questo lavoro da qualche anno, non mi era mai capitato di ritrovarmi con due icone hollywoodiane della mia generazione di spettatori, praticamente senza preavviso.
Tanto lui è esuberante, quanto lei è composta. Mentre parliamo sono seduti vicini: Julia ogni tanto gli prende il braccio e gli passa quasi tutte le domande; quando le tiene usa il suo sguardo per confermarsi, per finire le risposte.

George ha i capelli tagliati corti, è abbronzato oltre la decenza, indossa una giacca scura e una camicia di seta nera aperta un bottone più del necessario, su un petto color nocciola. Parla gesticolando, siede a gambe larghe, crea dei piccoli show estemporanei, ride, ammicca.

Lei invece sembra una professoressa: all’abito lungo che qui indossano quasi tutte le dive, anche il pomeriggio per le interviste (ho appena incontrato Jodie Foster, che ne portava uno indaco, da red carpet più che da chiacchierata), preferisce una camicetta gessata – ha gli occhiali e i capelli raccolti in una coda.

Sono qui a Cannes per presentare, fuori concorso, il nuovo film della Foster, Money Monster, un thriller sulla crisi economica, con un presentatore televisivo che viene preso in ostaggio in diretta da un ragazzo che ha perso tutto in seguito al crollo di un fondo di investimento. George è il presentatore, Julia la sua producer, quella che gli parla all’auricolare durante le trasmissioni e che, in questo caso, cerca di gestire l’emergenza, comunicandogli quanto sta avvenendo fuori dallo studio.

Io li guardo come guarderei un monumento: sono un pezzo di storia del cinema, ma sono anche l’incarnazione di uno star system che sta perdendo la sua aura metafisica e quindi il suo potere commerciale. Oggetto della realtà, sempre meno della fantasia, travolti dai brand del fumetto e dei videogames, fino a 15 anni fa abitavano l’Olimpo di tutti gli immaginari, mentre oggi sono un elemento della cronaca e una periferia del sogno.

Ed è proprio da questo passaggio che inizio la nostra conversazione, chiamando per distrazione George, “Giorgio”…

Anche se le cose sono cambiate, mi pare che tu cerchi di fare ancora film come quelli che facevi 10 o 15 anni fa… È quello il tipo di industria cinematografica che preferisci?

G – «Beh, la TV sta avendo un ruolo sempre più determinante sul tipo di film che vengono prodotti. Le cose stanno cambiando. Ma continuano a lasciarmi divertire con la mia scatola dei giocattoli, il che vuol dire che ci lasciano fare i film che vorremmo fare, anche se sono molto più difficili da finanziare. Funziona così: proponi il tuo film, lo studio non vuole produrlo perché, come dici tu, preferisce puntare sui grandi franchise, quindi l’unico modo per farlo è fissare un prezzo accettabile entro cui puoi farci star dentro tutto e realizzare la tua idea. E se poi riesci a produrlo stando in quel budget hai vinto, perché puoi continuare a fare il tipo di film che ti interessano».

Ti piacerebbe lavorare con Netflix in futuro?

G – «Conosco quei “ragazzi” molto bene e in realtà abbiamo già imbastito circa 5 differenti progetti su cui stiamo lavorando. Quindi certamente, è un’idea che mi piace molto. Non sono certo uno snob, io stesso arrivo dalla TV…»

Julia perchè hai scelto di fare questo film?

(qui la Roberts si appoggia a George e lo guarda con occhi pieni d’affetto, come a dire che l’ha fatto per, e grazie a lui; George ovviamente ride e se la gode)

J – «Io e George ci conosciamo talmente bene che in realtà avrei potuto rifiutare senza alcun problema quando mi ha proposto questo ruolo… (ride) No, appena ho letto lo script ho avuto una reazione subito molto positiva, mi sono venute in mente un sacco di idee, tanto che l’ho richiamato subito dicendo: “Ok cosa facciamo ora? Qual è il prossimo passo?”»

G – «Gli attori in genere, soprattutto le star, ti rimandano lo script con i loro appunti, e di solito sono cose del tipo: “Ecco, qui credo che il mio personaggio debba risaltare, sarebbe davvero fantastico…”. Oppure: ”Dovrei avere più battute!”. Invece Julia è arrivata con un sacco di proposte interessanti, tanto che ci siamo seduti a un tavolo e abbiamo ripensato completamente il suo ruolo. Erano delle ottime idee per poter raccontare quel tipo di storia».

A proposito dei vostri personaggi e del rapporto tra loro, voi vi relazionate quasi sempre a distanza nel film.

J – «Io e George abbiamo lavorato a contatto il primo giorno di shooting e l’ultimo, mentre per il resto abbiamo solo condiviso il set, ed è stato molto interessante girare il film in questo modo. Avevo la possibilità di stare in un angolo e vedere George che lavorava alle sue scene…»

G – «Lei in realtà era sempre nel mio orecchio. Cioè, provate a immaginarlo, la voce della Roberts nell’orecchio per 12 ore al giorno… (ride)».

J – «In realtà non avrei mai pensato di trovarmi a mio agio in una situazione in cui avrei trascorso molto tempo lontano dalla camera, magari in un angolo, solo con le mie parti da recitare a voce. Ma proprio grazie al nostro rapporto di grande amicizia siamo riusciti a costruire questi personaggi da zero e a farli crescere: più ne parlo, più sono sbalordita da quello che siamo riusciti a ottenere».

G – «Oh beh… Lei mi ha aiutato molto. Sai, quando invecchi inizi a dimenticarti le battute, e io avevo questi lunghi monologhi… Magari nel bel mezzo mi bloccavo e lei mi suggeriva dall’auricolare cose del tipo: “Ora sei molto arrabbiato”. E io partivo subito improvvisando qualcosa che funzionasse per quell’umore. Insomma, è stato molto divertente. Siamo amici da tanto tempo, abbiamo lavorato insieme in situazioni diverse, come attori, come produttori e come registi: abbiamo veramente avuto una vita comune divertente».

Parlando di questo film, ma anche pensando a La grande scomessa o Margin Call, George, pensi che l’industria di Hollywood stia affrontando e raccontando la crisi economica di questi anni in modo adeguato?

G – «I film di Hollywood non anticipano mai quello che accadrà, ma raccontano quello che è successo. Credo che La grande scommessa abbia azzeccato perfettamente l’approccio nel raccontare i fatti nella maniera più semplice possibile, anche se le cose erano molto complesse. Anche per il nostro film, soprattutto in post-produzione, l’obiettivo è stato quello di evitare troppi tecnicismi. Abbiamo preferito puntare sui personaggi. Ci sono tanti punti di vista nella storia, ma la linea comune tra tutti doveva essere che in realtà nessuno sapeva esattamente cos’aveva originato il problema finanziario da cui parte tutto. Abbiamo creato questa confusione generale che per raccontare questi fatti ha funzionato».

C’è stato un feeling particolare nel lavorare con una regista come Jodie Foster, che è anche una grande attrice, e appartiene alla vostra stessa generazione? 

(situazione strana: la Roberts dà una risposta politica, femminista, che non ha molto a che fare con la mia domanda; si infervora anche un po’, pare quasi arrabbiata)

J – «Beh, non penso a Jodie come a una “regista donna”, è semplicemente un grande regista con cui ho avuto l’opportunità di lavorare, ed è stata un’esperienza fantastica. Non credo che il fatto che sia una donna cambi qualcosa nel rapporto con attori o attrici, è la stessa identica cosa. Se avessi scritto poesie invece che recitare sarei semplicemente considerata un poeta e nessuno mi chiamerebbe poetessa».

(qui si inserisce George, che le aveva inizialmente passato la domanda, e deve aver visto la perplessità crescere sulla mia faccia)

G – «Il fatto di essere diretti da un attore ha dei vantaggi, perché conoscono esattamente i processi per ottenere il meglio da una performance. Ti spiego con un esempio. Quando lavoravo a E.R. non c’era mai tempo a sufficienza: 10 pagine di copione da recitare ogni giorno, e dialoghi super tecnici tra medici. Un giorno è arrivata un’attrice e il suo unico compito era quello di scoppiare a piangere alla fine di una scena lunghissima senza tagli, che finiva sulla sua faccia. Lei doveva esplodere perché il figlio era morto. Otto minuti di scena e poi lacrime a comando, e io ricordo che c’era questo regista che si limitava a urlarle: “Alla fine della scena io ti inquadro e tu piangi!”. Ovviamente ogni volta che arrivava il suo turno era completamente asciutta. L’abbiamo rifatta cinque volte, e nulla. Questo accadeva perché il regista tentava di farle fare qualcosa che non aveva senso, in un processo che non era organico. Quando sei diretto da un attore questo non succede».

Per chiudere, una domanda che probabilmente vi aspettate. Cosa ne pensate di Donald Trump? Potrebbe davvero diventare presidente?

J – «Sai già la risposta… Magari tu George vuoi dire qualcosa di più…»

G – «Ogni volta che vengo oltreoceano mi viene fatta la stessa domanda. Ovviamente la risposta è scontata, nessuno vuole cacciare dagli States i musulmani, non abbiamo intenzione di mandare via 12 milioni di persone, non torneremo alla tortura e neppure allo sterminio di massa. Queste sono tutte cose che non fanno parte della nostra cultura, che non appartengono alla nostra storia e quando sentite queste ipotesi, fate finta di niente: sono tutte cose che non accadranno mai. La realtà è che io sono molto positivo e fiducioso su quello che ci aspetta per il futuro, e assolutamente convinto del fatto che Donald Trump non diventerà mai presidente degli Stati Uniti d’America e che le sue idee non verranno mai messe in pratica».

A questo punto i nostri venti minuti finiscono, e mentre mi alzo in piedi guardo prima Julia e poi George, e gli dico: “Ma voi due… Ce l’avete un’idea di quanto per uno della mia età che ama il cinema sia strano, eccitante e anche un po’ commovente essere in una stanza con George Clooney e Julia Roberts? Insieme!”. Allora si alzano, e anche Julia sembra più rilassata, forse ha capito che non sono un maschio impazzito che si domanda come possa una donna dirigere un film. “Oh mio Dio… Piacere di averti conosciuto e di aver fatto questa chiacchierata.”

E George ridacchia.
Mi dà una pacca, poi guarda altrove, con quel sorriso da vecchia Hollywood che si ritrova, e dice: “Mi sa che è meglio se ti vai a bere una cosa, Giorgio”.

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Foto: Getty (Pascal Le Segretain/Getty Images)

 

 

 

 

 

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