Arriverà nelle sale italiane il prossimo 8 Marzo (una data non casuale), Nome di donna, il nuovo film di Marco Tullio Giordana, regista di I cento passi, La meglio gioventù e Romanzo di una strage, che torna al cinema con una storia tutta al femminile fortemente incentrata sul tema delle molestie sul lavoro ai danni delle donne: un argomento al centro, in questi mesi, di una presa di coscienza internazionale che non è esagerato definire epocale. La prima gestazione del progetto risale a due anni fa, quando i riflettori erano decisamente più fiochi, ma l’uscita coincide di fatto con l’apice del dibattito pubblico.
La vicenda al centro del film è quella di Nina (Cristiana Capotondi), che si trasferisce da Milano in un piccolo paese della Lombardia, dove trova lavoro in una residenza per anziani facoltosi. Un luogo in apparenza ovattato ma che cela al suo interno delle storture profonde, con le quali questa giovane donna non tarderà a doversi confrontare. Il dirigente della struttura, Marco Maria Torri (Valerio Binasco), la importunerà nel modo peggiore possibile, violando il suo privato e la sua integrità e costringendola a intraprendere una battaglia legale tanto dura quanto necessaria.
«La sceneggiatura che mi hanno proposto era molto bella – racconta il regista Marco Tullio Giordana presentando il film alla stampa – due anni fa non è che il problema non esistesse, ma non era così sugli scudi come oggi. Il copione non era militante, non voleva sostenere in maniera esplicita la giusta causa che rompe le scatole a tutti. I personaggi femminili non erano mai giudicati e questo era un aspetto che mi piaceva. Mi dispiace che non siano qui Valerio Binasco, che avrebbe avuto molte cose da dire sul suo personaggio sgradevole e scorretto, e Adriana Asti, cui ho proposto un ruolo perché è ancora molto attiva, tanto che debutta stasera a Milano col suo spettacolo Memorie di Adriana».
«La parola omertà è intraducibile in altre lingue, è una parola tutta italiana – continua il regista, interrogato a proposito dei legami tra Nome di donna e il suo conclamato passato da autore civile – bisogna dare le spallate per primi, anche a costo di farsi male, come accade nel film. Io personalmente credo che le cose possano cambiare, altrimenti non farei cinema. La manina, il piedino, il ginocchietto o qualsiasi altra forma di abuso non fanno parte di una guerra naturale tra i sessi, chi dice questo secondo me la butta un po’ in caciara. Quella che stiamo attraversando è una battaglia che riguarda tutti i tipi di legami e di sessualità, che supera le barriere di genere».
Nel corso della conferenza c’è spazio per qualche battuta scherzosa del regista su chi gli attribuisce appellativi reverenziali («Non chiamatemi più maestro, bisogna aver compiuto cent’anni per quell’appellativo e io sono ancora lontano. Quando chiamavano Monicelli maestro, lui rispondeva: ma maestro de che? Di maestro ce n’è stato uno solo, ed era Federico Fellini. L’unico faro che abbiamo avuto»), ma anche per le considerazioni appassionate della co-sceneggiatrice Cristiana Mainardi: «Sentivo che con l’ultima crisi economica si stava affermando nel mondo lavorativo e femminile una vera e propria emergenza. Io personalmente amo molto la quotidianità e quindi ho cercato un segmento di racconto su quelle contraddizioni che si insinuano nel nostro modo di rapportarci agli altri. Si tratta di un argomento molto taciuto, eppure l’Istat parla di 1 milione e mezzo di casi di donne lavoratrici che hanno subito molestie sul posto di lavoro. Il tema è stato così a lungo rimosso che quando lo proponevano mi dicevano: se non se ne è parlato fino a ora, un motivo c’è».
«Che questa storia si svolga all’interno del luogo di lavoro è molto interessante, visto quello che è accaduto molto dopo che si è sviluppata l’idea di questo film – afferma invece la protagonista Cristiana Capotondi, che nel film ha chioma corvina e sguardo dimesso, ferito ma fiero e combattivo – occorre fare pulizia nel mondo del lavoro: questa ragazza vuole solo lavorare, è arrivata per una piccola sostituzione estiva, la sua battaglia per l’indipendenza è legittima e riguarda un fortissimo cambiamento di costume».
«Non mi sono mai scontrata con una realtà del genere, ma l’ho sentita raccontare da altre in maniera emotivamente molto accorata – racconta ancora la Capotondi, che aveva difeso l’amico Fausto Brizzi in seguito allo scandalo sessuale che l’ha travolto qualche mese fa – al di là che sia capitato o meno è necessario però iniziare un discorso culturale, a partire dalle scuole, dalle mamme negli asili. Come Nina mi interessa soprattutto bonificare i luoghi di lavoro, affinché siano scevri dagli abusi di potere che agiscono in quegli spazi, che sono tanto più dolorosi proprio perché subdoli, perché attingono alla sfera di ciò che sei».
«In quest’epoca storica si devono ancora segnare i confini dell’abuso e della molestia, perché è un periodo storico di grande cambiamento e tutto devo ancora assestarsi – conclude l’attrice – da donna, però, sono contenta che si sia fatto luce sulle derive del potere. Che siano politici, direttori di grande aziende e primari d’ospedale è giusto scegliere persone autentiche, che non portino le loro nevrosi sul luogo di lavoro. Ai luoghi di esercizio di potere corrisponde una responsabilità enorme e forse ce ne siamo un po’ dimenticati. Noi tutti, stampa compresa, dobbiamo evitare la ricerca del mostro, del capro espiatorio. La pulsione voyeurista di trovare un carnefice è lesiva per tutti e non aiuta i lati positivi di questo processo culturale».
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