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Denis Villenueve: perché è il nuovo maestro del cinema d’autore di oggi

La tensione di Prisoners, la precisione di Sicario, e ora gli applausi da Venezia per Arrival: il profilo di un regista che negli ultimi anni ha saputo affermarsi con prepotenza

Denis Villenueve: perché è il nuovo maestro del cinema d’autore di oggi

La tensione di Prisoners, la precisione di Sicario, e ora gli applausi da Venezia per Arrival: il profilo di un regista che negli ultimi anni ha saputo affermarsi con prepotenza

Per comprendere i motivi che rendono un regista non solo bravo, ma quasi un maestro nel suo campo, spesso è sufficiente fare la cosa più semplice: guardare i suoi film. Perché ci sono dettagli riconoscibili da chiunque, anche da chi non ha il cosiddetto “occhio del critico”. Ebbene, guardando i film di Denis Villenueve, è facile intuire la stoffa del regista canadese, che ha saputo affermarsi come uno dei nuovi maestri del cinema d’autore. E attenzione: in questo caso, per cinema d’autore non intendiamo il classico cinema d’essai, sperimentale, bensì un modo di lavorare unico e riconoscibile.

Possiamo partire da La donna che canta (2010) per individuare le basi del suo stile: la storia racconta di due fratelli gemelli che, alla morte della madre, si lanciano in un viaggio in Medio Oriente alla scoperta del passato della donna, che si rivelerà ben diversa da quella che conoscevano. Il film – da settembre su Infinity – è un’appassionante e drammatica ricerca iniziatica, la cui prima inquadratura vede un bambino fissarci con occhi pieni di rabbia, mentre i soldati palestinesi gli rasano la testa. Bastano queste immagini per percepire il rigore con cui Villenueve gestisce la macchina da presa. Una precisione quasi matematica, la sua, votata alla certezza della sequenza, che raramente mostra meno di quanto il regista voglia mostrarci.

Il film che l’ha fatto definitivamente notare al grande pubblico, però, è anche il suo primo film americano: Prisoners (2013: anch’esso disponibile a noleggio su Infinity). Un thriller a orologeria con Hugh Jackman nei panni di un padre disperato, disposto a tutto pur di ritrovare sua figlia scomparsa, e Jake Gyllenhaal in quelli del detective che conduce le indagini. Una storia grigia perché ricca di sfumature, così come i chiaroscuri con cui sono caratterizzati i protagonisti. La parola chiave, che racchiude l’anima del film, è labirinto: un intricato – ma ordinato – ed estenuante percorso morale e psicologico in cui si affonda senza opporre resistenza. Villenueve concede agli attori anche spazio per improvvisare, ma è sempre lì, a fare loro da guida con inquadrature pulite e la macchina da presa mai scomposta.

È proprio questa compostezza il marchio di fabbrica del regista, un senso della misura che in pochi vantano a Hollywood e che equivale a fare le cose per bene, quasi alla perfezione, senza strafare. Per alcuni potrebbe essere uno stile quasi piatto, il suo, senza “verve”, invece c’è molta ricerca alla base. Ricerca di ciò che è funzionale alla scena, eliminando lo stucchevole. In un film come Enemy, per esempio, realizzato dopo Prisoners e sfortunatamente mai arrivato in Italia, chissà quali libertà si sarebbe concesso Christopher Nolan. Perché la storia, un po’ alla Nolan, è: un insegnante divorziato (sempre Gyllenhaal), guardando un film scopre l’esistenza di un attore uguale a lui, che per giunta vive a pochi passi da casa sua. Un doppio che l’uomo comincia a seguire, a spiare, e che presto diventa un’ossessione. Sino a quando le loro strade si incrociano. E qui cominciano i dubbi: se fosse solo frutto della mente del protagonista? Il film diventa un rompicapo di ellissi temporali e narrative, con lo spettatore a fare l’equilibrista tra finzione e realtà. Trovare risposte, alla fine, è un’impresa che sfugge però dall’essere frustrante: riuscire a rendere sopportabili così tanti interrogativi aperti, è capacità solo dei grandi.

Nonostante la complessità del plot (e della sua messa in scena), in Enemy si percepisce una profonda cura dei dettagli, la stessa che Villenueve replica in Sicario, presentato a Cannes 2015. Un thriller teso e soffocante, con Emily Blunt e un Benicio Del Toro ispiratissimo, entrambi impegnati a eliminare un cartello della droga messicano. Del film ce ne parlava Roberto Recchioni nella prima puntata della sua rubrica su Best Movie, A scena aperta: «Nel cinema del regista canadese non c’è mai quell’attimo di follia, quell’angolo di ripresa imprevisto, quell’eccesso estetico che sfocia, qualche volta, nella pacchianeria e nel cattivo gusto. Nello “sbaglio”».

Dal Festival di Venezia, il suo ultimo lavoro, Arrival: uno sci-fi in cui Amy Adams e Jeremy Renner cercano di decifrare i messaggi degli alieni sbarcati sulla Terra. Il déjà vu sembra dietro l’angolo, eppure Villenueve non cade nella trappola, realizzando un film capace di catturare, assorbire e far riflettere (qui trovate la nostra recensione).

Alfred Hitchcock, Michael Mann, David Lynch: modelli per chiunque e anche per Villenueve, che, a differenza di altri, non si è limitato a imitarli, sviluppando una visione ben precisa del suo cinema. E il talento eclettico, abile nel giocare con i generi, gli ha permesso di diventare uno degli autori più apprezzati del panorama contemporaneo.

 

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