Festival di Venezia: la recensione di Miss Marx di Susanna Nicchiarelli

Romola Garai è Eleanor “Tussy” Marx nel lungometraggio con cui la regista di Nico torna, stavolta nel concorso principale, alla Mostra del Cinema

Romola Garai in Miss Marx
PANORAMICA
Regia (4)
Interpretazioni (4)
Sceneggiatura (3.5)
Direzione della fotografia (4)
Montaggio (4)
Colonna sonora (3.5)

Eleanor Marx, figlia minore di Karl Marx, fu come il padre attivista politica e sindacalista, oltre che letterata. L’impegno socialista, nella sua vita, si declinò però in una sfumatura progressista più ampia, investendo in particolare il ruolo della donna nella società. Con Miss Marx Susanna Nicchiarelli dipinge un ritratto di “Tussy” – come veniva affettuosamente chiamata in famiglia – raccontandone la vita tra il 1883, anno della scomparsa del padre, e la morte, avvenuta meno di vent’anni più tardi. Al centro di tutto, ancor più delle battaglie civili e dei discorsi pubblici, la tormentata convivenza con un altro intellettuale e politico socialista, Edward Aveling, con cui non poté mai sposarsi a causa di un precedente matrimonio.

Alla Nicchiarelli interessa infatti il paradosso esistenziale di una donna che scontò sulla sua pelle la subalternità – domestica, ancor prima che sociale – della condizione femminile, accettando di sopportare (per amore!) ogni sorta di tradimento, e questo proprio mentre denunciava la ricadute delle strutture sociali capitaliste sui rapporti di forza tra uomini e donne. Ma conflitto e paradosso sono una costante della messa in scena, essendo la differenza di classe tra ideologi e proletari evidenziata in ogni dettaglio, costume e dialogo. Al punto che gli operai e le loro famiglie restano sempre – rispetto a Eleanor – elementi di estraneità, al limite brevi epifanie, e tutta la sua vita e le sue relazioni accadono all’interno dell’aristocrazia intellettuale di cui fa parte.

A questo snodo assieme storico e privato Nicchiarelli dà una forma eccellente, costruendo i suoi interni con sensibilità pittorica barocca (onore e merito alla direzione della fotografia di Crystel Fournier), ma spezzando la continuità del quadro con squarci di musica punk e monologhi recitati dai personaggi con lo sguardo in macchina da presa (certi passaggi direttamente letterari della sceneggiatura). Il merito maggiore, che è poi una questione di pura sensibilità, è che a un’operazione cinematografica così teorica la regista romana conferisce una naturalezza estrema, evitando sia la rigidità mortifera di certo cinema in costume, che le contaminazioni posticce e modaiole dei tanti imitatori di Sofia Coppola.

Ne risulta un film vivo e realista, ma anche stilizzato e istruttivo, che suscita commozione per il modo diretto – a tratti quasi rarefatto – con cui “dice” le radici di un pensiero che da un secolo e mezzo sfida lo status quo mentale dell’Occidente. E per come mette in scena vite che pervicacemente negano i propri ideali, spostando continuamente tra pubblico e privato le ragioni e gli esiti della lotta.

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