Festival di Venezia 2019: Luca Marinelli è Martin Eden nel film di Pietro Marcello. La recensione

Il regista di "Bella e perduta" adatta in modo brillante il romanzo di Jack London, trasferendo i personaggi nella Napoli di inizio Novecento. Un lavoro di eccezionale qualità, il miglior cinema italiano del 2019 assieme a Il traditore

Luca Marinelli è Martin Eden
PANORAMICA
Regia (5)
Interpretazioni (4)
Sceneggiatura (4)
Montaggio (3.5)
Direzione della fotografia (5)
Colonna sonora (4)

Martin Eden, il romanzo di Jack London pubblicato la prima volta (a puntate) nel 1908, è di per sé una lettura complicata, muove infatti una critica al pensiero individualista e alle politiche liberiste – quindi implicitamente sostiene il socialismo – attraverso un antieroe (egoista e ossessivo) che attraversa un lungo processo di emancipazione culturale ed economica, un percorso di riscatto, per il quale dunque lo spettatore fa a lungo il tifo. Pietro Marcello, assieme al co-sceneggiatore Maurizio Braucci, ne ha tratto un film altrettanto complesso e affascinante.

Martin Eden (Luca Marinelli) è un marinaio, un ragazzo di origini umili che si innamora per caso di Elena (Jessica Cressy), primogenita di una ricca famiglia della borghesia industriale. La casa della ragazza, i libri, la musica, le conversazioni, poi l’attrazione fisica, sono la scintilla che libera le ambizioni di Martin, deciso a costruirsi una cultura e una carriera da scrittore. Solo che come in ogni percorso da autodidatta è la casualità e non il metodo a costruire le idee: l’incontro traumatico con un saggio di Herbert Spencer, filosofo evoluzionista e teorico del darwinismo sociale, lo trasforma in un fervente avversatore delle dottrine socialiste, pur rimanendo fortemente critico nei confronti del capitalismo.

Il conflitto che ne consegue è doppio: il ragazzo disprezza i movimenti operai ma anche la ricca famiglia di Elena, isolandosi sempre di più e tuttavia conquistandosi infine – e sostanzialmente per caso – la tanto agognata celebrità letteraria e il conseguente progresso sociale.

Tutto questo nel romanzo di Jack London accade a inizio secolo tra Oakland e San Francisco, mentre nel film di Pietro Marcello siamo in Italia, in un tempo indeterminato che è una “crasi” (termine rubato alle note di regia) della prima metà del Novecento, e in una città che è Napoli.

Il film rappresenta soprattutto due cose: l’ambizione di fare un cinema “alto” ma popolare, che trasformi cioè una questione filosofica in una spettacolare (in particolare in un dramma romantico), e un tentativo di “musicare assieme” materiale documentario e fiction con un grande divo, senza soluzione di continuità, ottenendo un prisma: illuminato nel buio della sala libera coerentemente tutti i colori del suo spettro – storia, filosofia, volti da strada e da libri di testo (lo spezzone con l’anarchico Malatesta), sperimentazione audiovisiva, canzonette e musica classica, attori celebri e mai visti, teatro da camera e slanci naturalisti.

C’è quindi in Martin Eden il fascino del romanzo d’appendice, l’opportunità di esplorare un dibattito storico-politico (si dirà “molto contemporaneo”, probabilmente non lo è, ma non importa: già essere partecipi di una discussione del genere, impegnarsi a valutarla, è bellissimo) e il piacere del prestigio registico, la cifra stilistica di Pietro Marcello: questo slittamento continuo tra vero e verosimile, molto più di un’imitazione, che fa impallidire le acrobazie digitali dei family movie che conquistano il box office.

Qui il recensore si ferma, rilegge il testo da capo e sente il bisogno di rassicurare il lettore-spettatore, che potrebbe essersi spaventato. Niente affatto: è grande cinema, degno dei nostri maestri. Si segue con passione, si guarda con gusto, si ragiona nella misura che l’umore favorisce.

© RIPRODUZIONE RISERVATA