Irma Vep e i fantasmi “seriali” del cinema. La recensione della serie di Olivier Assayas con Alicia Vikander

Nella sua serie in 8 puntate il regista, sceneggiatore e showrunner francese amplia e arricchisce l’universo narrativo del suo film omonimo del 1996, affidando all'attrice svedese il ruolo che fu della sua ex moglie e diva del cinema orientale Maggie Cheung 

Irma Vep recensione
PANORAMICA
Regia (3.5)
Sceneggiatura (4)
Interpretazioni (3.5)
Fotografia (3.5)
Montaggio (3.5)
Colonna sonora (3)

Mira (Alicia Vikander), un’attrice svedese stanca dei soliti blockbuster americani sui supereroi (avrebbe potuto interpretare un Silver Surfer donna), reduce da uno scandalo mediatico e da una delusione amorosa, arriva a Parigi per recitare nel remake di un celebre serial del cinema muto francese, I vampiri di Louis Feuillade, nel ruolo della protagonista, la ladra Irma Vep, per la regia di un cineasta fuori dalle sirene del mainstream di nome René Vidal (Vincent Macaigne), alle prese con un esaurimento nervoso e che in passato aveva girato un film dallo stesso soggetto. Ben presto si renderà conto però che i punti di contatto tra lei e il personaggio sono molti di più di quelli che credeva e i confini tra realtà e finzione cominceranno a sfibrarsi e logorarsi a vicenda, facendosi sempre meno nitidi e definiti e producendo una fusione irreversibile e accidentata di fiction e non fiction. 

La serie Irma Vep – La vita imita l’arte, remake dell’omonimo film di Olivier Assayas del 1996, della quale il regista francese ha scritto e diretto tutti gli episodi, vede la Vikander nel ruolo che fu all’epoca della diva del cinema orientale Maggie Cheung, musa ed ex moglie di Assayas che aveva diviso moltissimi set con Jackie Chan e con la quale l’ex critico dei Cahiers du Cinéma girò anche Clean – Quando il rock ti scorre nelle vene. Di Irma Vep Assayas è anche produttore esecutivo ed è per lui la seconda esperienza sul piccolo schermo dopo Carlos, serie basata sulla vita di Ilich Ramírez Sánchez, terrorista marxista e mercenario venezuelano. 

Nel film originale si riprendeva in chiave postmoderna il celebre serial muto Les Vampires, composto da dieci episodi usciti nel 1915 per la regia di Louis Feuillaude e adorato dai surrealisti per lo sberleffo alla borghesia in chiave “fantastica”, ragion per cui la matrice seriale dell’operazione è già contenuta nei materiali di partenza. Irma Vep, oltre a essere di fatto una serie remake di un film nel quale si girava una serie remake di un film, riprende anche i tanti raffinati rimandi dell’originale: Mira è l’anagramma di Irma, il cui nome completo, Irma Vep, era a sua volta l’anagramma di Vampire, e dal suo nome – come ricordava la protagonista dell’originale del 1915, l’attrice Musidora – ebbe origine il termine vamp. 

Il personaggio della Vikander, dal canto suo, sembra aderire alle ossessioni metalinguistiche e cinematografiche del film originale ibridandole con i fantasmi seriali del cinema contemporaneo: uno scenario in cui la presenza dei cinecomic è pervasiva e totalizzante; tutto o quasi sembra ridotto a contenuto diluito ad hoc per ingrossare le piattaforme; l’advertising, le indagini di mercato, gli algoritmi e la sudditanza nei confronti della pretesa di conoscere in anticipo i gusti dello spettatore hanno tarpato le ali a rischi ed esperimento; e il MCU della Marvel, per citare l’esempio più macroscopico, ha acquisito a tutti gli effetti le dinamiche della serialità, dialogando a stretto contatto e senza soluzione di continuità con le sue produzioni per il piccolo schermo destinate a Disney+. 

In Irma Vep, che rispetto al film originale affronta di petto l’ecosistema delle piattaforme allora assente, il senso di immaterialità ed evanescenza dovuto al digitale si fa sempre più marcato, portando il vecchio divismo di un tempo a smaterializzarsi o le identità a frammentarsi in presenze spettrali, oscillanti dallo schermo di un device all’altro, strumenti che Assayas a differenza di altri autori non teme di filmare (Paolo Sorrentino, ad esempio, non ha fatto mistero del fatto che non si azzarderebbe mai a filmare una chat su uno smartphone e non ne avrebbe il coraggio). Affrontavano proprio questi temi, dopotutto, già i due film più cruciali della recente produzione di Assayas, Sils Maria e Personal Shopper, entrambi con Kristen Stewart (presente anche nel cast di Irma Vep in un piccolo ruolo tutto da scoprire, simile a un sigillo), mentre Irma Vep punta di più sulla satira su bizzarrie, narcisismi, insicurezze e nevrosi del dietro le quinte del mondo del cinema, a cavallo tra America e Francia, da qualche parte tra Chiami il mio agente! e la nostrana Boris, ma con un gusto intellettuale e cinefilo estremamente più marcato e radicale.

Quest’idea di prestige tv, per la quale Assayas ha lavorato con HBO ma anche con la casa di produzione e distribuzione indipendente più à la page e ambita del momento, la A24, sfida però la retorica della “serialità per cinefili” e della definizione forse abusata del “film da 8 ore lungo e in capitoli”, cui fa ricorso tuttavia tanto Assayas quanto il suo alter ego di finzione, molto più vicino a lui del Jean-Pierre Léaud dell’originale: un Vincent Macaigne come sempre stropicciato e struggente, utilizzato dal regista anche per rivolgere una lettera d’amore e rimpianto postuma all’ex moglie e musa Maggie Cheung, dalla quale divorziò nel 2001. 

A Irma Vep interessano infatti soprattutto le idiosincrasie e le incertezze radicali dell’oggi che però finiscono con l’essere quelle di sempre (il cinema è in fondo un medium – a riprova della sua connessione con gli spettri – di cui si pronostica la morte fin dalla sua nascita), il re-enactment del passato sotto forma di eterno backstage, declinato in un presente assoluto in cui come sempre gli «spiriti non sono né buoni né cattivi, ma soltanto spiriti», «tutti mentono sulle proprie dipendenze, altrimenti non si farebbero più film» e «la luce è molto più difficile da raggiungere dell’oscurità», come dice Mira a René a fine riprese. La lotta per fare film, insomma, somiglia sempre molto a un esorcismo, e non è cambiato granché anche se oggi si mettono nello stesso calderone concetti come politicamente corretto, woke culture, femminismo e appropriazione culturale e ci sono star straniere dipendenti dal crack per cui «agli Oscar ormai ci sono solo registi messicani e coreani».

Il discorso sul cinema che ne viene fuori non si discosta, in definitiva, da una celebrazione della settima arte fuori da ogni griglia temporale, stagione artistica e creativa e corrente di pensiero e mercato, e che in quanto tale del cinema abbraccia soprattutto la precarietà, l’eterna transitorietà e la fragilità intrinseca e inalienabile. Alicia Vikander è in tal senso un corpo e un volto più dolce e delicato di Maggie Cheung, e il suo fluttuare sui tetti di Parigi non può che essere meno misterioso ed eroticamente perturbante e più plastico e letterale, come i tempi impongono (se la Maggie Cheung del film Irma Vep era un’aliena proveniente dall’Oriente, oggi Mira è un’aliena proveniente da Hollywood).

L’attrice svedese è però a conti fatti perfetta per una Irma Vep del 2022 e per il discorso sul fuori campo del cinema portato avanti dalla serie, visto che dopo molti film indipendenti si è affacciata al cinema mainstream (Tomb Raider) con risultati per il momento diradati e faticosi. Se poi pensiamo che era la seconda scelta di Assayas qualora Kristen Stewart non avesse potuto recitare in Personal Shopper, e che l’assistente di Mira nella serie, la Regina interpretata da Devon Ross, nell’infinito gioco di rimandi, incastri e fluttuazioni orchestrato da Assayas è una copia pressoché esatta del personaggio della Stewart in Sils Maria, è chiaro come il cinema sia proposto come seduta spiritica ma anche come rituale magico e alchemico fatto di transizioni e dissolvenze incrociate, nel quale i set in fondo non esistono mai davvero ma sono sempre, proprio come i sogni, una imitation of life.

Foto: A24, Vortex Sutra, The Reasonable Bunch, Little Lamb

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