Pif e la mafia, secondo round: la recensione di In guerra per amore

L’attore e regista siciliano racconta lo sbarco degli alleati in Sicilia nel 1943 e una storia d’amore ostacolata dalla malavita. Per mostrare un mondo in cui ogni visione sentimentale della vita è compromessa dalla criminalità organizzata

In guerra per amore è un film a lungo convenzionale e un po’ esangue, con piccole intuizioni sorprendenti di regia che ne increspano la superficie. Non è abbastanza divertente per essere una commedia “alla Benigni”, anche se in un paio di occasioni si ride di gusto (la parodia dei selfie, la visita al capezzale del moribondo); e non è abbastanza emozionante per essere una commedia romantica. In compenso si rivela sufficientemente deciso nel fornire informazioni e un punto di vista sulla Storia da essere una commedia politica.

Pif racconta lo sbarco degli americani in Sicilia nel luglio del 1943, inventandoci dentro la storia di Arturo, immigrato siciliano a New York, che deve tornare in patria per chiedere la mano dell’amata Flora al padre. Questa traccia privata si unisce a quella pubblica nel ruolo della Mafia: mafioso è infatti il promesso sposo di Flora, che chiede al padre di eliminare il rivale; e mafioso è il destino della Sicilia, abbandonata dagli americani al governo della malavita e al corso politico della Democrazia Cristiana, in cambio del lasciapassare sulle coste e di collaborazione nei paesi attraversati. L’indicazione è chiara e documentata, e Pif ha il coraggio di chiudere il film su un simbolico atto d’accusa alla Casa Bianca, (spoilerino) fermandosi su una panchina di fronte all’edificio, come fosse (come fossimo) ancora in attesa di una risposta.

In questo senso il film è contemporaneamente più concreto e meno universale rispetto a La vita è bella. Ne conserva le stesse musiche da trattoria, la stessa messa in scena elementare dei sentimenti, la stessa accessibilità popolare dei simbolismi, e la stessa funzione del protagonista-giullare che traduce (in)consapevolmente la Storia, un dato che nelle ore della morte di Dario Fo sembra anche molto puntuale. E tuttavia di La vita è bella non ha la spontanea leggerezza, la fragilità commovente che a volte Benigni ha incarnato.

C’è però sempre dentro il cinema di Pierfrancesco Diliberto la rabbia di un siciliano tradito dalla sua terra – un rabbia travestita e modellata, ma palpabile -, che è probabilmente il suo vero tratto autoriale: non lo rende in assoluto migliore o peggiore di tutto il cinema italiano che gli somiglia, ma gli dà ragioni vere che lo fanno distinguere e preferire.

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