Raya e l’ultimo drago, la recensione del nuovo film d’animazione Disney

Il 59esimo classico d'animazione della Casa di Topolino, disponibile su Disney+ con Accesso VIP, rivolge lo sguardo all'Asia

Raya e l'ultimo drago
PANORAMICA
Regia (3)
Sceneggiatura (3.5)
Fotografia (3)
Montaggio (3)
Colonna sonora (3)

500 anni fa la nazione di Kumandra univa popoli differenti sotto il pacifico presidio dei Draghi. Finché i Druun, entità malvagie, non si sono diffusi tra gli uomini, agevolati dalla loro cupidigia e discordia, finendo per trasformare ogni forma vivente in pietra. Solo il sacrificio dei Draghi permise all’umanità di salvarsi: il segreto del loro potere è rimasto racchiuso in una gemma magica, unica arma di difesa contro i Druun. 

Raya e l’ultimo drago, 59esimo classico Disney, ci presenta immediatamente quest’universo narrativo segmentato, pieno di fratture e dissidi interni: il regno di Kumandra che viene mostrato nel prologo, molto diverso dal resto del film per vocazione e tratto grafico, all’inizio della storia è un’utopia perduta, un tratteggio politico smarrito sotto i fendenti temibili del caos. Viene a mancare, com’è evidente, l’equilibrio tra popoli, ma anche, da una dimensione simbolica più profonda, l’armonizzazione delle singole componenti di una mitologia univoca.

Quest’entità geografica divisa tra nazioni in guerra tra loro corrisponde ad altrettanti “parti” del drago: Zanna, Artiglio, Cuore, Dorso e Coda. Raya, principessa di Cuore, prova a tendere la mano verso Namaari, giovane figlia della regina di Zanna, ma la fiducia in quest’ultima porterà a una terribile disgrazia e al ritorno dei Druun. Siamo insomma di fronte a una storia di ricomposizione di regni e popolazioni, trainata da una giovane guerriera chiamata a caricarsi di una responsabilità che, in rapporto all’attualità, non può che essere anche storica, oltre che identitaria.

Se il messaggio non si discosta dalla correttezza ecumenica e pedagogica cui le major sono oggi universalmente chiamate, il modo limpido e avvolgente di guardare al Sud Est Asiatico e all’Estremo Oriente con gli occhi di una produzione americana dimostra quanto potenziale evocativo ci sia nella lingua universale dell’animazione disneyana e nella sua compattezza, che non per forza fa rima con rigidità. Così granitica e fedele a se stessa, ancora oggi, da aderire a culture lontane e diverse, chiamando a raccolta un team di sceneggiatori tanto americani quanto asiatici, tra i quali in questo caso l’Adele Lim di Crazy Rich Asians (commedia con autrice e personaggi orientali di successo negli States: un unicum singolare del quale da noi si è parlato relativamente). 

Il risultato, pur senza picchi d’originalità, ha una tenuta – d’immaginario, vedute spettacolari, forze in campo – appassionante e armonica, ottenuta col minimo sindacale e senza strafare, anche se un occhio orientale potrebbe facilmente rintracciarvi qualche crepa in più (rispetto al live action di Mulan, in compenso, non c’è traccia di stonature tra il livello del racconto e la sua resa spettacolare). Il regista Don Hall aveva già rivolto lo sguardo al Giappone con Big Hero 6, ma qui, nonostante l’ampio ricorso a elementi colorati e magici, l’approccio di fondo è paradossalmente più realistico e dinamico che fantasioso. 

Dal punto di vista prettamente funzionale, Raya e l’ultimo drago è guidato, più che dal rapporto ancestrale con figure paterne o draghi dolci, svampiti e fortemente caratterizzati (la Sisu doppiata dalla cantante sinoamericana Awkwafina), da una scansione a episodi e tappe in tutto e per tutto videoludica. Riunire le gemme è infatti fondamentale per sbloccare nuovi livelli di racconto, ma anche per veicolare negli spettatori più giovani una fiducia solidale nel diverso che sbocci passo dopo passo, snocciolando un’immedesimazione sostenibile e mai precipitosa nell’abbracciare tanto nuovi personaggi quanto, soprattutto, l’altro da sé. 

Foto: Walt Disney Pictures (via MovieStillsDB)

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